POLICINICO
Policinico. Non è un refuso. Anzi, lo ripetiamo: Policinico.
É quel lager che teoricamente si chiama Policlinico Umberto I, qui a Roma, ma che in realtà non merita tale nome.
Si tratta infatti di un mattatoio, un luogo in cui un’umanità ammaccata, dolorante, è alle prese con la spietatezza burocratica e umana di medici e infermieri più vicini alle Ss che a un personale ospedaliero.
Soprattutto al pronto soccorso, indice del reale funzionamento
di un ospedale, luogo di smistamento e diagnosi immediata per cure in seguito più approfondite.
Beh, se il grado di civiltà di un ospedale si verifica dal pronto soccorso, il modello del Policlinico Umberto I concorre con Auschwitz.
Ti capita di recarti lì per un orecchio infettato e sanguinante che oltre a gonfiare collo e mascella non ti fa più respirare dal dolore. Sono quasi le otto alla vigilia della notte bianca (che anche per te sarà bianca, ma non nel senso delle euforie weltroniane…).
Ti trovi all’improvviso in una sala d’attesa che sembra una stazione Termini notturna: uomini e donne accasciati per terra, alcuni addormentati sulle sedie, altri che si aggirano come fantasmi o fanno ossessivamente su e giù nel corridoio davanti alla sala, l’unica, in cui un medico, l’unico, vede man mano i pazienti.
Persone parcheggiate, ignorate, maltrattate. Una signora anziana è lì dal mattino per un dolore alla caviglia, all’improvviso scoppia a piangere perché non resiste più e si rifiuta di rimanere ancora stesa sul lettino (lì accanto c’è la zona “obitorio”, una saletta con tanti lettini su cui sono deposte persone ormai immobili come cadaveri per l’attesa estenuante. Non vola una mosca). Un signore prende le sue difese e la aiuta a chiamare un taxi per andarsene mentre l’infermiera la rincorre sventolando “l’accettazione” ormai firmata che fa di lei un’evasa.
In effetti questo posto sembra un carcere, peggio ancora, sembra Auschwitz.
Incurante di dolori, di crampi, di ogni tipo di sofferenza, l’infermiera legge ad alta voce i nomi dei condannati, poi separa un gruppo dall’altro sempre con quel tono metallico, e scansa ragazze pallide con la mano sulla pancia, uomini così vecchi che la loro faccia che sembra la falda di Sant’Andrea, blocca chi prova a fare capolino nella stanza del medico per accelerare un’assistenza negata da quattro, cinque ore.
Se questo è un ospedale, dici parafrasando Levi.
Perché un abbrutimento simile?
L’infermiera ha la stessa grazia di un giocatore di wrestling, la stessa pazienza di un toro a Pamplona, la stessa voce premurosa e avvolgente di Vanna Marchi.
Certo, bisogna dire che al pronto soccorso arrivano anche i furbetti, quelli che per non andare dal medico di base preferiscono il pronto-soccorso e magari sono lì per un foruncoletto irritato o un mal di gomito dopo due ore di flessioni in palestra.
E intasano, intasano ancora di più questo supermercato della sofferenza.
Ma c’è gente che sta male sul serio, perbacco, e che viene semplicemente ignorata. E maltrattata.
A un certo punti ti fanno entrare solo perché stai svendendo dal dolore, e sotto minaccia del tuo amico alla fine l’infermiera-macellara si decide a trascinarti dentro, dove però, in quel purgatorio, ti fai un’atra ora e mezzo in attesa dell’otorino che, ti dicono, è stato chiamato.
Lasciata lì, su una sedia a rotelle in una stanzetta, aspettando Godot l’otorino, osservi il tran tran di “militari” (le divise verdi e quel piglio autoritario fanno pensare a tutto tranne che a un servizio di assistenza) e speri che questa guerra finisca presto.
Ma da dove arriva l’otorino? Quando atterra su questo pianeta?
Sei sfigata perché becchi pure il cambio di guardia perciò la visita viene rallentata, archiviata, sospesa fra uno che si toglie la divisa e un altro che la indossa mentre magari fogli e chiamate si confondono nel casino.
Dopo tanto, tantissimo tempo e qualche accidente che ti lancia un’infermiera davanti ai tuoi solleciti disperati, finalmente Godot si manifesta e ti guarda l’orecchio.
Data la cura, lasci l’ospedale con un senso di disfatta e amarezza pensando ancora a tutti quelli che, buttati qua e là, attendono che il Policinico li assista.
Roba da denuncia. Vivere la sofferenza del prossimo in questo modo ignorante e aggressivo è una vigliaccata in un paese che si proclama civile.
Ma di quale civiltà stiamo parlando? Siamo sicuri che i veri barbari siano sempre altrove rispetto a noi?
p.s. gli ultimi post ispirati da liriche bellissime hanno subìto una virata notevole con questo ultimo inserto, ma anche questo fa parte della realtà. Si tratta della leggerezza contro la pesantezza….Chi vuole può comunque leggere di Auden postato ieri, che per motivi…mala- sanitari è restato in testa per pochissimo tempo.
CAMBIAMENTI
Vorremmo essere rovinati piuttosto che cambiare;
vorremmo piuttosto morire nel nostro terrore
che scalare l’avversità dell’attimo
e lasciare che la nostra illusione muoia
(W.H. Auden)
Proseguiamo la piccola galleria poetica che sembrate gradire, riflettendo su questi versi del poeta W. H. Auden a cui dobbiamo alcune liriche davvero magnifiche (come quelle, ad esempio, che si trovano nel libro Un altro tempo, pubblicato da Adelphi).
W.H. Auden cristallizza in questi versi una realtà terribile quanto sconcertante: l’essere umano è terrorizzato dai cambiamenti. Malgrado i proclami che più volte lanciamo nella vita, malgrado le annunciazioni più o meno “pubbliche” sulla nostra presunta, futura realtà nella quale giuriamo a noi stessi e al mondo che saremo diversi, malgrado le frasi tassative (“Niente sarà mai più come prima, giuro che stavolta sarò diverso”) con cui pensiamo di aver toccato la radice della nostra fissità trasformandola magicamente in mobilità, siamo invece appesi ai nostri schemi come scimmiette, come naufraghi avvinghiati alla zattera di una deriva temuta ma familiare.
Le metamorfosi dell’essere hanno bisogno di una estremizzazione in cui a volte si sfiora la morte per avere qualche possibilità di reale rinnovamento.
Come succede a Gregor Samsa, che all’improvviso si sveglia e si ritrova trasformato in un insetto. Se quella del protagonista kafkiano è una metamorfosi plumbea, metafora del un cambiamento dolente di un essere alienato al punto da diventare un insetto, la metamorfosi inversa, ovvero un ipotetico cambiamento verso uno stato “aereo” dell’essere, alleggerito da zavorre interiori, diventa davvero difficile da realizzare.
Perché siamo terribilmente pantofolai, e preferiamo percorrere all’infinito le strade ammaccate e dolenti dei nostri vizi, infilandoci sempre negli stessi, angusti anfratti in cui però, malgrado il dolore, ci riconosciamo, piuttosto che scoprire l’orrore della libertà.
Già, l’orrore della libertà.
Fa paura, la libertà.
Non riconoscersi più nei vecchi schemi coincide con il perdere l’identità (ma si perde l’Io, non il Sé). Meglio dunque una vita nei gironi infernali piuttosto che un solo giorno, da liberi, in Paradiso.
Tuttavia ogni volta che perdiamo qualcosa si apre una porta verso un cambiamento.
Il problema è varcarla.
SOLITUDINI
C’è una solitudine dello spazio,
una del mare,
una della morte, ma queste
compagnia saranno
in confronto a quel più profondo punto
quell’ isolamento polare di un’anima
ammessa alla presenza di se stessa –
infinito finito.
(Emily Dickinson, Silenzi)
Sarà perché dopo Etty Hillesum abbiamo voglia di rimanere in un clima più profondo, sarà perché ci siamo stancati dei tormentoni estivi, dei Calisutra e dei turisti di plastica., sarà perché ieri sera abbiamo visto la deriva antropologica di Unanimous, nuovo reality della De Filippi in cui una manciata di persone rinchiuse in un bunker sparano castronerie a tutto spiano, sarà perché il clima torrido di quest’estate che non vuole finire mai ci fa rimpiangere l’aria fresca che pizzica sulla pelle, ma abbiamo bisogno di spessore, profondità. Di parole “giuste” e non di quelle urlate, quelle a vanvera, quelle degli slogan e delle pubblicità, quelle politichesi.
Emily Dickinson in pratica non uscì mai di casa, ma riuscì a viaggiare come fecero in pochi, vera pioniera degli strati più profondi dell’essere.
Le sue liriche cantano l’amore in ogni sua forma, e testimoniano di come la clausura, forzata o cercata che sia, stimola sensi sottili, guida l’artista verso l’indagine sul velo di maya, lo esorta a sfinire la realtà con la sua ricerca di essenza.
Dunque non si conosce solo con lo “regolamento dei sensi”, per dirla con Rimbaud.
Emily in una stanza trovò il suo cielo, come direbbe Gino Paoli se dovesse cantarla.
Senza muoversi, girò il mondo intero.
PRONTO CHI SONO?
Succede che torni dalle vacanze e ti siedi al computer per postare qualcosa sul blog.
Ma il modem non funziona. Ti accorgi in seguito che è proprio la linea a essere muta. Da due mesi hai fatto il grande salto, da Telecom (meglio Telecoma, visto l’esodo di utenti dell’ultimo anno) a Infostrada, convinta forse dalla simpatia di Fiorello versione barbone che conversa davanti a un falò con il pleistocenico Mike Bongiorno. Del resto è vero, le bollette Telecom sono salassi e tu non vuoi finire a dormire sulle rive del Tevere.
Dunque, telefono guasto, dicevamo. Dopo un certosino controllo a cavi e cavetti, ti decidi a chiamare Infostrada e dopo una serie di slalom fra numeretti e voci metalliche di replicanti, finalmente imbrocchi il numero giusto per parlare con un operatore. Sì, una voce umana in quell’universo metallico spietato e perverso (come quando ti costringono a ripetere come un pappagallo il nome del tizio che stai cercando, mentre il computer continua: "Scusi, non ho capito" e tu avresti voglia di dirgli: Imbecille!).
Ecco, il tecnico ti dice che sì, in effetti c’è un problema (ma va’…non mi ero accorta) alla centrale e che risolveranno.
Va bene, errare è umano. Ma niente blog, niente telefonate, niente computer.
Se provi a chiamare tu, il telefono è muto. Se con il cellulare chiami il tuo numero, squilla invano.
A un certo punto però ti chiama un amico e ti dice che al tuo numero di telefono ha risposto…un’altra signora!
Verissimo. Quando provi a telefonarti ti risponde una voce femminile che non è la tua. Mamma mia. per un attimo pensi di essere dissociata, pensi che una parte tua…stia telefonando all’altra.
Invece ti risponde la signora Brioschi.
Dunque, tu telefoni a te stessa e la signora Brioschi ti risponde dall’altra parte.
Il problema si chiama inversione di cavi. Il casino l’ha combinato Telecom (la signora Brioschi li insegue disperata da tre settimane perché le avevano assegnato un numero e se ne ritrova un altro. Il mio, appunto) ma tu cominci un valzer di telefonate con il cellulare navigando di nuovo fra voci metalliche e numeretti per approdare infine all’assistenza.
"Sta chiamando da un cellulare" E porcamiseria lo sai, il tuo il fisso è stroncato da un inversione di fili.
Beata la signora Brioschi, almeno lei telefona e riceve telefonate con il tuo numero. Tu no.
Minacci cause e avvocati se non risolvono subito la faccenda con Telecom.
Stamani, però, ancora il vuoto.
Bip Bip Biiiiip.
SOS SMS. SCRITTURA IN DECLINO
Ki 6?
X il mondo 6 solo 1 nome, x me 6 il mondo. Nn dimenticartene mai.
Ankora graffi alla mia auto dimmi quando la smetti? che cosa vuoi da me? nn ti hanno ankora comunicato nulla? o n ti basta neancke q.sto? finiscila!
vale facciamo giov alle 13.00 al solito rist.? fammi sapere tvtanto b
Se 6 ki penso io meglio morta ke c. te! i miei fiori pref.? le rose bianche e q.lle rosa…nn lo sai!!!
Xké continui a frequentare gente marcia! Avevi promesso Xké continui!
Grazie di ttt questi baci! Nn è ke diventerò trpp dolce? Snz parole: sl grazie. 1 megab.one, simi
E chi sarebbe 1 amore tuo…q.lla alla q.le hai scritto? firmati o 6 troppo bastardo e codardo!!
Ma come l’amore nn era 1 altra cosa? mo l’hai trovato coglione chi ti ha incastrato! a me lasciami stare n ti v. cme te lo d.vo scrivere!!!
Oggi ci vediamo, ciccia!! porta q.llo!
Tra 3 gg parto con 2 amiche. vado in Ingh.terra. ci vediamo al ritorno!! tvb tnt bacione!
Come va con lei? Questo w.end ci vediamo??
Scioattola nn ti dimenticherò! 6 la donna + slpcl e imprtnt, Xk nn mi Kami ciao bacione!
Sono – sicura.
La lingua è vivace, dinamica. Cambia con il cambiare della società. Alcune parole cadono in disuso, altre fanno il loro ingresso (specie nell’ultimo secolo, con l’avvento dell’era tecnologica e l’uso degli inglesisimi).
E va bene. Oggi, però, gli sms sono davvero grotteschi.
Usati da tutti (ho visto perfino un settantenne che mandava un messaggio con il cellulare mentre alla posta ritirava la sua pensione), limitano e impoveriscono un linguaggio altrimenti versatile e ricco di possibilità quasi infinite.
Il problema è che i più grandi, come la scrivente, hanno già imparato a usarne le potenzialità, le alchemiche combinazioni di sostantivi a aggentivi, le varianti della sintassi.
I più giovani, invece, sono sottoposti al tiro incrociato di sms che invadono l’etere da sera a mattina. E magari, a scuola, come mi raccontava, depressa, un’amica che insegna italiano al liceo, continuano a usare quello stesso linguaggio mozzato, deforme e sterile.
Del resto siamo nell’era del mordi e fuggi, del fast food economico. E una certa sintesi ci ha impoverito, anche se viene proposta in modo vincente.
Quest’estate il tormentone pubblicitario mostrava come a costo 0 con un semplice No! inviato ripetutamente via sms si potesse perfino interrompere un matrimonio.
Così accade a Muccino Junior che, sulle note di Happy Hour di Ligabue, continua a "messaggiare" (termine orribile ma eloquente) la ragazza incontrata per un nanosecondo sul camion che ha caricato i due giovani autostoppisti, per convolare poi a giusta fuga dopo averla convinta, tartassandola di No a costo Zero (promozione Tim o Vodafone, ho rimosso), a lasciare l’altare per fuggire sulla sua moto.
Molto romantico e lontano, oggi, il ricordo delle lettere inviate dal e al fronte. Certo, le mail ci hanno aiutato, soprattutto se due persone abitano rispettivamente agli estremi del mondo, ma hanno anche mutilato alcune suggestioni.
C’era qualcosa di romantico, un tempo, nel pennino che doveva cercare la giusta inclinazione per trovare la forma della parola, e nello sforzo richiesto per tracciare le frasi sulla carta vibrava anche il suggerimento dell’importanza di quelle stesse parole.
C’era poi il momento di tensione estrema, quello in cui si infilava la carta assorbente tra un foglio e l’altro per trattenere l’inchistro in eccesso attendendo che il resto si fissasse per sempre.
Nell’acrobatica attenzione rivolta alla scrittura era contenuto il significato stesso della sua preziosità. Era una fisicità era densa, carnale.
Ricordo la fatica per imparare a usare il pennino.
Può sembrare che la scrivente sia anziana, e invece ha solo avuto una maestra anacronistica ma geniale che aveva imposto l’uso del pennino e dell’inchiostro. Serviva "per imparare a scrivere bene", sosteneva, e fu sostituito dalla moderna penna biro solo in quinta elementare.
Allora non capivo perché dovessi fare quella faticaccia, con la punta del pennino che si spezzava in due se forzavo troppo, o i fogli disastrati, pieni di pozzanghere di inchiostro che sembravano tante macchie di Rochac (si scrive più o meno così, la memoria in questo momento è fallace) che avrebbero richiesto, se fossero state tali, l’internamento immediato in un manicomio.
Maledivo la mia maestra perchè violentava, pensavo allora, la mia natura pasticciona, eppure molto tempo ho dopo capito l’importanza e il senso di quell’esercizio impegnativo. E oggi le sono grata.
Nella calligrafia, che usa una forma svolazzante oppure greve, parole tondeggianti o schiacciate, piene di ghiribizzi, giravolte, segni grafici estesi o troncati, verticalità oppure orizzontalità, si cela la personalità di chi scrive, come mi insegna un’amica esperta calligrafa.
Nella forma delle nostre parole è dunque racchiusa la nostra individualità psico-emotiva. Affascinante.
Invece oggi esercitiamo la calligrafia solo per firmare…carte burocratiche e assegni.
Il resto è omologato dai caratteri, che siano Arial, Garamond oppure Verdana. Anche questa è globalizzazione.
Certamente le mail sono importanti, lo abbiamo detto. Hanno agevolato la comunicazione, reso possibili risposte "in tempo reale". Eppure abbiamo perso qualcosa.
Ricordo, da ragazzina, il sapore dolce dello scambio epistolare con l’amica del cuore che abitava a Milano. Le sue lettere, animuccia bella, era perfino accompagnate dal suo profumo, con quel pizzico di lesbismo (inteso come erotismo velato) che caratterizza la simbiosi femminile con la confidente preferita, la compagna di ogni nostra avventura, l’Amica.
Poi, più tardi, il brivido davanti all’attesa delle lettere del fidanzatino che abitava a Bologna (sì, sempre distanze, nella mia vita), lo sconcerto davanti alla casella postale vuota intorno alla quale si stringevano i palpiti del mio cuore dolente.
Già, la casella postale, tormento e delizia di quei giorni lontani in cui il postino era atteso come un Messia.
In più le poste italiane, si sa, non hanno mai brillato per efficienza, e molte di quelle attese non significavano certo che l’amore stava sbiadendo. Le mie lettere stavano solo giacendo, dimenticate, in qualche tratta intermedia fra le Marche e l’Emilia.
Com’è caro, oggi, il ricordo di quelle lettere. La vita epistolare conservata nei nostri scatoloni impolverati conserva qualcosa di magico che le mail stampate non possiedono.
Si tratta dell’unicità di quella carta, della forma unica e irripetibile di ogni singola scrittura, della persona evocata, immaginata nell’atto di posare penna e parole su quella carta, cercando di procedere dritta in assenza di righe o quadretti, con l’indice e il medio dolente per il prolungato sforzo.
Nell’atto della scrittura ci si attardava a scegliere la parola giusta, quella che avrebbe reso unici, per noi e per il destinatario, sentimenti e pensieri.
La comodità omologata, oggi, ha raggiunto invece un apice abominevole con gli sms.
Lapidari, grotteschi, troncano le parole per creare frasi brevi, stitiche (cmq nn so se posso venire), a metà tra lingua italiana e matematica (6 andato a scuola? x favore no…siamo in 2 o 3 a cena?).
La legge è quella dei supermercati, prendi 2 paghi 3, risparmia e ottieni lo stesso risultato. Però, porcamiseria, c’è risparmio e risparmio.
Qui non si tratta di risparmio, ma di…scippo autorizzato. Le parole vengono stuprate, deformate, per la solita assenza di tempo che governa il mondo moderno.
Tuttavia sorge un dubbio: cosa succederebbe se si sprecasse qualche secondo in più per scrivere interamente una parola? O per trovare un modo di dire più originale, personalizzato, specie nelle frasette d’amore che si abbattono sui cellulari degli adolescenti?
Solo No? Solo Sì? Poco..
Anni fa uscì un bellissimo libro, raccolto in due volumi pubblicati da Einaudi, che conteneva le epistole d’amore più belle della storia della letteratura (come le lettere tra Sibilla Aleramo e Dino Campana, tanto per fare un esempio).
Ora, sicuramente questi signori avevano una certa dimestichezza con le parole di cui avevano fatto un mestiere, una vocazione. Ma mi domando oggi come e cosa avrebbero scritto usando come mezzo di comunicazione un cellulare.
Non credo, però, si sarebbero piegati alla S-Grammatica dell’Sms.
Non c’è più spazio per il purismo, non ci sono più Accademie della Crusca, d’accordo. E sappiamo tutti che è giusto che un linguaggio si trasformi con il trasformarsi di una società. D’accordo, anche qui.
Ma siamo sicuri che sia proprio necessario devastare così il nostro linguaggio?
Se si deve usare un sms lo si faccia pure, lo faccio anch’io. E anch’io a volte, confesso, se ho molto da fare uso i vari cmq o nn. Però lo faccio solo se davvero necessario, solo se gravata da un’urgenza. E altrove so comunque scrivere in un italiano diverso.
Anzi, in italiano.
Ma alcuni di questi ragazzini, che peraltro non leggono neanche molti libri, come dimostrano le statistiche editoriali, poi finiscono per non avere alternative, e scrivere in un tema in classe "Ke dire della Rivoluzione francese"…
Gli sms inoltre sono farciti di punti esclamativi, chissà perché. Si crede che aggiungano enfasi e forza a quanto viene detto.
Mentre in realtà a volte rendono un messaggio molto più debole.
Lo sapeva bene Carver, il quale diceva che nulla trafigge di più di un punto.
Punto e basta.
ANIMA E COZZE
Che cosa significa anima e cozze? Non è il nome di un ristorante, e neppure un bar. (Acqua).
É invece una sorta di sintesi di un modo di essere e sentire la vita. Un manifesto programmatico, una fenomenologia della realtà, una percezione dell’essere. (Fuoco).
Perché anima e cozze? Con anima si intende tutto ciò che ha un respiro sottile, spirituale. Che ha a che fare con l’"insostenibile leggerezza dell’essere", per dirla con Kundera.
Anima è silenzio, solitudine, respiro del cuore che ascolta sé stesso, vuoto pieno dell’esistenza, brivido infinito della cessazione di ogni movimento.
L’anima delle cose è il centro del mondo, che dovrebbe poi coincidere con il nostro stesso centro.
Insomma, nell’anima si distende ogni cielo, si compie ogni ciclo.
Con il termine cozze, invece, riassumiamo tutto ciò che ha a che fare con il lato più materiale della vita.
É metafora del godimento (l’impepata di cozze rappresenta una sfida per il fegato ma un oasi per il palato), voglia di avventura a ogni latitudine di questo mondo. Le cozze formano un gruppo, un gruppo coeso tenacemente attaccato alla vita. Amano stare vicine, hanno il sapore salato del mare che conferisce gusto alla vita.
Insomma, anima e cozze, espressione coniata dalla scrivente in un giorno qualunque di un anno qualunque, riassume due modi di essere opposti eppure complementari, legando l’uomo sia alla terra che al cielo.
Quando c’è solo anima l’uomo rischia di perdere il radicamento al terreno. Per salire in alto, come i rami di un albero, bisogna avere radici ben salde o ci si spezza.
Alcuni individui inclinano particolarmente verso l’anima. Fra questi incrociamo i santi, i poeti, gli eroi pazzi delle battaglie invisibili.
Quando ci sono solo le… cozze, l’uomo assapora l’esperienza del mondo. La sua fame di vita lo porta a contatto con le occasioni sociali, mondane. Di ogni cosa vuole sentire il gusto, annusare il profumo, osservare i colori, udire i suoni…Sogna romantici scudi stellari sotto il cui ombrello vivere le sfumature dei sentimenti, ascolta concerti insieme agli amici con cui scambia frammenti di esistenza, mangia in ristoranti dove può ridere, e parlare, insieme agli altri.
Se lasciato da solo, "l’uomo cozza" va in tilt perchè è abituato al mondo dei sensi, alla compagnia gaia e rumorosa di amici e fidanzate, al passaggio concreto su una terra che offre esperienze, stimoli, appagamenti e inquietudini fatte di carne.
Più poroso, il mondo delle cozze, rispetto alla levigata quanto effimera dimensione eterea dell’anima.
Stesso disorientamento per "l’uomo anima" costretto a sperimentare gli attriti di questo mondo, a sporcarsi le mani con i sentimenti, gli amori, gli affanni.
Poi ci sono gli uomini "anima e cozze", come la sottoscritta. Esseri in bilico sui due mondi, che sperimentano orizzontalità e verticalità perdendo sempre l’ago della loro bussola non appena sostano troppo a lungo in una delle due dimensioni.
Ma in fondo ogni l’uomo è anima e cozze. Ha bisogno di pieni e di vuoti, di visibile e di invisibile. Poi, certo, siamo tutti diversi e, come per i sogni, ognuno possiede la chiave per decifrare i codici della sua vita.
Però prima o poi tutti ci imbattiamo in quello che, per sintesi e comodità, abbiamo battezzato anima e cozze. Accade quando ci rendiamo conto che la vita è meravigliosa nelle sue promesse rinnovate ogni mattino, e perfino nelle ansie che le accompagnano, ma che l’esperienza della materia ha i suoi limiti, che le compagnie e gli scambi e i viaggi e le scoperte e gli amori non bastano. E non bastano neppure i libri e le pur sconfinate distese dell’intelletto.
C’è qualcosa che ha un nome più antico, e ci chiama da sempre. Accade un po’ come per La donna che cercava il suo cuore pubblicato nel primo numero di Silmarillon (www.silmarillon.it).
Alcuni scrittori, come Virginia Woolf, ne hanno sentito il potente richiamo, e ne hanno pagato il prezzo.
Ma ne vale la pena.
Sempre ricordando che è proprio in quell’ anima e cozze che forse viviamo la nostra dimensione più completa (anche se non facile da "gestire").
Ovviamente una visione più monocromatica dona sicurezza e stabilità. Ma, come abbiamo detto in vari post, facciamo parte di quelli che accettano gli effetti collaterali, tra cui magari – a volte – le notti insonni, per osservare e vivere il mondo tutto intero, come se fosse il caleidoscopio che ci incantava da piccoli facendoci diventare, in quei dettagli colorati, tanti e nessuno. O uno, nessuno e centomila, come scrisse qualcuno.
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