Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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POLICINICO

 

 

 

Policinico. Non è un refuso. Anzi, lo ripetiamo: Policinico.

 

É quel lager che teoricamente si chiama  Policlinico Umberto I, qui a Roma, ma che in realtà non merita tale nome.

Si tratta infatti di un mattatoio, un luogo in cui un’umanità ammaccata, dolorante, è alle prese con la spietatezza burocratica e umana  di medici e infermieri più vicini alle Ss che a un personale ospedaliero.

Soprattutto al pronto soccorso, indice del reale funzionamento

di un ospedale, luogo di smistamento e diagnosi immediata per cure in seguito più approfondite.

 

Beh, se il grado di civiltà  di un ospedale si verifica dal pronto soccorso, il modello del Policlinico Umberto I concorre con Auschwitz.

 

Ti capita di recarti lì per un orecchio infettato e sanguinante che oltre a gonfiare collo e mascella non ti fa più respirare dal dolore. Sono quasi le otto alla vigilia della notte bianca (che anche per te sarà bianca, ma non nel senso delle euforie  weltroniane…).

Ti trovi all’improvviso in una sala d’attesa che sembra una stazione Termini notturna: uomini e donne accasciati per terra, alcuni addormentati sulle sedie, altri che si aggirano come fantasmi o fanno ossessivamente su e giù nel corridoio davanti alla sala, l’unica, in cui un medico, l’unico, vede man mano i pazienti.

Persone parcheggiate, ignorate, maltrattate. Una signora anziana è lì dal mattino per un dolore alla caviglia, all’improvviso scoppia a piangere perché non resiste più e si rifiuta di rimanere ancora stesa sul lettino (lì accanto c’è la zona “obitorio”, una saletta con tanti lettini su cui sono deposte persone ormai immobili come cadaveri per l’attesa estenuante. Non vola una mosca). Un signore prende le sue difese e la aiuta a chiamare un taxi per andarsene mentre l’infermiera la rincorre sventolando “l’accettazione” ormai firmata che fa di lei un’evasa.

In effetti questo posto sembra un carcere, peggio ancora, sembra Auschwitz.

Incurante di dolori, di crampi, di ogni tipo di sofferenza, l’infermiera legge ad alta voce i nomi dei condannati, poi separa un gruppo dall’altro sempre con quel tono metallico, e scansa ragazze pallide con la mano sulla pancia, uomini così vecchi che la loro  faccia che sembra la falda di Sant’Andrea, blocca chi prova a fare capolino nella stanza del medico per accelerare un’assistenza negata da quattro, cinque ore.

Se questo è un ospedale, dici parafrasando Levi.

 

Perché un abbrutimento simile?

L’infermiera ha la stessa grazia di un giocatore di wrestling, la stessa pazienza di un toro a Pamplona, la stessa voce premurosa e avvolgente di Vanna Marchi.

Certo, bisogna dire che al pronto soccorso arrivano anche i furbetti, quelli che per non andare dal medico di base preferiscono il pronto-soccorso e magari sono lì per un foruncoletto irritato o un mal di gomito dopo due ore di flessioni in palestra.

E intasano, intasano ancora di più questo supermercato della sofferenza.

Ma c’è gente che sta male sul serio, perbacco, e che viene semplicemente ignorata. E maltrattata.

 

A un certo punti ti fanno entrare solo perché stai svendendo dal dolore, e sotto minaccia del tuo amico alla fine l’infermiera-macellara si decide a trascinarti dentro, dove però, in quel purgatorio, ti fai un’atra ora  e mezzo in attesa dell’otorino che, ti dicono, è stato chiamato.

Lasciata lì, su una sedia a rotelle in una stanzetta, aspettando Godot l’otorino, osservi il tran tran di “militari” (le divise verdi e quel piglio autoritario fanno pensare a tutto tranne che a un servizio di assistenza) e speri che questa guerra finisca presto.

Ma da dove arriva l’otorino? Quando atterra su questo pianeta?

 

Sei sfigata perché becchi pure il cambio di guardia perciò la visita viene rallentata, archiviata, sospesa fra uno che si toglie la divisa e un altro che la indossa mentre magari fogli e chiamate si confondono nel casino.

 

Dopo tanto, tantissimo tempo e qualche accidente che ti lancia un’infermiera davanti ai tuoi solleciti disperati, finalmente Godot si manifesta e ti guarda l’orecchio.

Data la cura, lasci l’ospedale con un senso di disfatta e amarezza pensando ancora a tutti quelli che, buttati qua e là, attendono che il Policinico li assista.

Roba da denuncia. Vivere la sofferenza del prossimo in questo modo ignorante e aggressivo è una vigliaccata in un paese che si proclama civile.

 

Ma di quale civiltà stiamo parlando? Siamo sicuri che i veri barbari siano sempre altrove rispetto a noi?

 

p.s. gli ultimi post ispirati da liriche bellissime hanno subìto una virata notevole con questo ultimo inserto, ma anche questo fa parte della realtà. Si tratta della leggerezza contro la pesantezza….Chi vuole può comunque leggere di Auden postato ieri, che per motivi…mala- sanitari è restato in testa per pochissimo tempo.