C’è una solitudine dello spazio,
una del mare,
una della morte, ma queste
compagnia saranno
in confronto a quel più profondo punto
quell’ isolamento polare di un’anima
ammessa alla presenza di se stessa –
infinito finito.
(Emily Dickinson, Silenzi)
Sarà perché dopo Etty Hillesum abbiamo voglia di rimanere in un clima più profondo, sarà perché ci siamo stancati dei tormentoni estivi, dei Calisutra e dei turisti di plastica., sarà perché ieri sera abbiamo visto la deriva antropologica di Unanimous, nuovo reality della De Filippi in cui una manciata di persone rinchiuse in un bunker sparano castronerie a tutto spiano, sarà perché il clima torrido di quest’estate che non vuole finire mai ci fa rimpiangere l’aria fresca che pizzica sulla pelle, ma abbiamo bisogno di spessore, profondità. Di parole “giuste” e non di quelle urlate, quelle a vanvera, quelle degli slogan e delle pubblicità, quelle politichesi.
Emily Dickinson in pratica non uscì mai di casa, ma riuscì a viaggiare come fecero in pochi, vera pioniera degli strati più profondi dell’essere.
Le sue liriche cantano l’amore in ogni sua forma, e testimoniano di come la clausura, forzata o cercata che sia, stimola sensi sottili, guida l’artista verso l’indagine sul velo di maya, lo esorta a sfinire la realtà con la sua ricerca di essenza.
Dunque non si conosce solo con lo “regolamento dei sensi”, per dirla con Rimbaud.
Emily in una stanza trovò il suo cielo, come direbbe Gino Paoli se dovesse cantarla.
Senza muoversi, girò il mondo intero.