LA SCRITTURA CRETINA
Come funghetti velenosi, negli ultimi dieci anni sono spuntati – pressoché ovunque in Italia – corsi e seminari sulla "scrittura creativa". In futuro si organizzerà forse una facoltà universitaria? Laureato in scrittura creativa…mmh, non suona poi male.
Che significa, però, questa benedetta scrittura "creativa"? Spiegatecelo, illuminate la nostra arretratezza culturale.
Secondo i nostro modesti neuroni, l’atto di scrivere, a voler essere proprio pignoli, è già di per sé creazione, qualunque cosa si scriva, è creazione in quanto si dà forma a qualcosa che prima era inesistente.
Allora, in questo senso, anche la casalinga che fa la lista della spesa scegliendo la pera al posto della mela, o accostando lo zucchero al pangrattato, è in un certo senso creativa. Non è come scrivere un romanzo, va bene, e un vigile che compila una multa non avrà la fantasia di un pubblicitario che inventa uno slogan…ma questo basta forse a giustificare l’espressione "scrittura creativa"?
Si intende, con creativa, la diversità tra l’elencazione e la narrazione, la finzione, fino a qui i nostri quattro neuroni sono arrivati, ma ancora non capiamo perché sia necessario affiggere quell’ozioso supplemento alla parola scrittura. Scrittura e basta.
Scrittura narrativa, semmai. In fondo, la scrittura utilizza la creatività diventando narrazione, alchemica combinazione di parole e concetti. Si possono insegnare forse le tecniche, ma le tecniche non sono "creative".
Sì, sappiamo che Raymond Carver ha scritto un saggio nel cui titolo appare proprio questa espressione, scrittura creativa. Ma dissentiamo lo stesso.
Anche perchè le lezioni di Carver non sono come …le lezioni terribili di molti apprendisti scrittori che "insegnano" a scrivere un romanzo spillando quattrini ai poveri aspiranti narratori. E invece si è molto speculato su questo, abusando il termine, utilizzandolo per pretendere di insegnare…la creatività (anche la scrittura non si insegna, a nostro avviso. Solo il genio di Carver poteva farlo, ma di Carver ne nascono pochi, davvero pochi).
La creatività in fondo si aggira nei sobborghi della fantasia, quella che ha fatto sì che Pessoa, ad esempio, insieme alla registrazione dei quaderni contabili della struttura presso cui lavorava abbia scritto pure libri magnifici come Il libro dell’inquietudine. La creatività, la fantasia non possono dare frutti senza la dimestichezza con il linguaggio, ovviamente.
Ma la scrittura, l’arte di scrivere appartengono al talento. Che può essere affinato, allenato. Ma non può essere studiato, nè tantomeno appreso.
Non ci sono ricettari magici per diventare scrittori, ad eccezione del consiglio di frequentare buone letture.
Scrittori creativi. Mah…
Se volete scrivere, scrivete. Senza preoccuparvi di fuorvianti e arbitrari suffissi. Con un’avvertenza: evitate la scrittura cretina. Quella sì, esiste davvero.
POST DI FERRAGOSTO
Ero tentata di infilare il post senza scrivere nulla, e ci ho anche provato, ma è comparso un box che in pratica mi ha dato della cretina dicendo che il post era vuoto…
Uffa, non è libertà. Ho pensato di fregarlo inserendo dei puntini di sospensione, la mia silenziosa protesta verso i ferragosti del mondo, e stava funzionado, ma poi mi è venuta voglia di fare una piccola, nanoscopica riflessione:
ma perché a ferragosto dobbiamo mangiare i meloni in spiaggia premuti come sardine, tirarci i gavettoni sulla riva, tuffarci dal pedalò rischiando di fratturare il collo del nostro vicino? (versione da spiaggia)
ma perché a ferragosto dobbiamo andare all’arrembaggio di campagne e montagne, fare ore di coda per un pic nic sul praticello, intubarci nelle autostrade attaccati alle nostre macchine come fossero polmoni artificiali? perché per una gita fuori porta non basta uscire dal condominio ma bisogna invece recarsi nei luoghi "ufficiali" del ferragosto?(versione colline e dintorni)
Insomma, quanto lavoro per…non lavorare. Che traffico di cucine, prepara-pranzoni-o-panini, che organizzazione aziendale nel gestire le risorse umane nel loro giorno di liberazione, nel controllare e organizzare tutto quel traffico, quel can can che si spegne solo di sera, a luci finalmente spente, quando si torna dalla gitarella marina o campestre, e tutti stanchi, e felici, non si pensa che questo giorno è forse il più faticoso (insieme al 31 dicembre) di tutto l’anno…
Il Ferragosto anarchico è realtà di pochi. Appartiene, forse, a quelli che vogliono riposarsi davvero. Magari con un bel libro o una chiacchiera in libertà insieme a un amico, lontani dalle tarantelle umane, ai miscugli di carne e sudore, alla fatica di divertirsi a tutti i costi lavorando per non lavorare.
Buon Ferragosto, comunque…
MULINI SENZA -ISMI E -ISTI
A volte leggendo il mulino qualcuno sarà spiazzato perché troverà argomenti diversi fra loro, raccontati a volte in modo ironico, quasi sfacciato, altre volte terribilmente serio. Ma c’è un accorgimento per leggere Il mulino di Amleto, ed è quello della curiosità, e della misura analogica che coglie le affinità in esperienze diverse che hanno denominatori comuni (non sempre rintracciabili solo dalle categorie logico-razionali, per fortuna).
Il mulino di Amleto non appartiene a nessuna famiglia ideologica, purtroppo. In questo è molto "solo". Non è di destra, non è di sinistra, non è tradizionalista, non è modernista, non è ateo e non è religioso. Ma ha anche a che vedere con le faccende che riguardano tutte queste "famiglie". Solo che cerca di affrontarle da un punto di vista difficilissimo da praticare: l’intelligenza. Quella viva, duttile, non irregimentata in pre-giudizi che filtrano le cose del mondo. Inciampa spesso, intendiamoci. Ha tutte le sue fragilità.
Certo, fra queste famiglie ha le sue "simpatie". Ma è pronto anche a metterle in discussione. Perchè l’assoluto non è di questo mondo.
Le persone tassative, categoriche, tutte intelletto privo di cuore o sentimenti, non ameranno mai questo blog. E neppure quelle che tifano sempre e soltanto per qualcuno o qualcosa.
Perché si possono amare le tradizioni e allo stesso apprezzare alcuni segni moderni, si può leggere Platone insieme a Sibilla Aleramo, ascoltare i vespri in latino dei benedettini a Sant’Anselmo, sull’Aventino, e comprarsi un cd dei Pink Floyd o di Carmen Consoli, andarsene in cima a un monte soli soletti e godersi una cena fra amici in trattoria, proprio in centro.
La vita è ricchezza, possibilità. Dividere il mondo in bianco e nero agevola i nostri sonni sereni ma impoverisce la comprensione delle cose che ci circondano.
Attraversarlo invece, cercando di annusare i profumi (e le puzze, ovviamente), e farlo senza appellarsi agli-ismi (fascismi, comunismi, tradizionalismi, modernismi, spiritualismi, globalismi, no-globalismi, occidentalismi, orientalismi e via…ism-ando) rende un po’ orfani, un po’ cani sciolti (senza il collare o ci perde o ci si trova oppure, se si è fortunati, le due cose diventano una) ma è una delle strade possibili. In fondo, oguno sceglie la sua.
Ogni volta che usiamo un particolare suffisso, -ismo, perdiamo qualcosa della completezza che ci circonda. Dagli -ismi derivano gli -isti (fascista, comunista, buddista, pacifista, ecc.) e tutti insieme ordinano il mondo per categorie di appartenenza. Tuttavia l’intelligenza, perdonateci l’accostamento, "soffia dove vuole" e non può essere imbrigliata se è frutto di curiosità autentica, se è figlia di quella complessità che fa capire, prima o poi, che viviamo tutti nel grande gioco delle proiezioni, e che ciascuno (gruppi, persone) trattiene un pezzettino del mosaico globale che consente alla vita di manifestarsi. Senza Mordred i cavalieri di Artù non possono mostrare le loro virtù, così come senza Giuda Cristo non può compiere la sua missione salvifica. C’è sempre un "nero" che fa da controparte al "bianco".
Quindi cercare di abbandonare gli -smi e e gli -isti (il che non equivale a riuscirci, intendiamoci bene) è stimolo e fonte di ispirazione per l’intelligenza di cui parlavamo. Non a caso l’intelligenza, nel mondo antico degli dèi greci e romani, aveva a che fare con Ermes-Mercurio. Inafferrabile, rapido, sempre in moto. Mercurio non può essere fermato né tantomeno costretto in una gabbia. Significherebbe ucciderne l’essenza, cosa peraltro impossibile.
Amare o discutere cose tanto diverse fra loro produce, dicevamo, danni alla quiete notturna e altri effetti collaterali, però ha anche un pregio: ne vale la pena. E ne vale la penna. I blog sono spesso usati soprattutto per sfoghi narcisistici (IO ho fatto colazione e ho pensato a come era bella la nuvola che mi passava sopra il cielo. Punto. Sono fico, eh?), personalissimi. In realtà invece può diventare un diario che usa piccole cronache, appunti quotidiani, riflessioni di altri, per interrogarsi su cose che abbiano un interesse trans-personale.
Ad esempio oggi l’era della globalizzazione o produce l’annullamento dell’identità locale (più facile) o la esaspera fino a provocare una chiusura in difesa (più difficile). Bene, bisogna avventurarsi e riflettere su entrambi gli atteggiamenti. Ci sono, di nuovo un esempio, cose "positive" in una comunicazione moderna più allargata (insomma, se io condanno e basta gli eccessi tecnologici poi non dovrei usare la mail, né tantomeno un blog) che però viaggiano insieme a quelle "negative", fanno parte del principio della doppia valenza che pervade ogni cosa. E sono anche un po’ come Mordred e Artù, hanno ognuno bisogno dell’altro. Il problema è che quando prendiamo posizioni troppo severe ci condanniamo un po’. E trasformiamo il mondo in un tribunale. Questo non signfica non prendere posizione, ma guardare – o cercare di farlo – i doppi, tripli risvolti da ambo le parti.
Le idiosincrasie e gli episodi raccontati in modo ironico servono a far pensare, noi per primi, a quello che diciamo, alle riflessioni da cui prendiamo spunto. Ma prendere posizione, per noi del Mulino, non vuol dire mettere la cera alle orecchie e il prosciutto sugli occhi.
Non si tratta insomma di "buonismo" (che schifo, per carità) né di "ecumenismo" concilia-tutto accetta-tutto (molto New Age, mamma mia…), ma solo di renderci conto, al di là delle nostre simpatie e antipatie a volte tranchants, della quisquilia del nostro essere in relazione a una vastità che possiamo appena cercare di comprendere.
E di divertirci nell’attraversare luoghi diversi in cerca di sintonie o antipatie non guidate da un’appartenenza assoluta.
Ma torniamo al Mulino di Amleto. Se qualcuno dovesse essere spiazzato dai guizzi diversi tra loro, in campi diversi, scritti con linguaggi differenti, può domandarsi se per caso in sé stesso non viva, rannicchiata da qualche parte, una analoga complessità.
In fondo tutti a volte siamo divertenti e altre filosofi, a volte profondi e altre invece attaccati tenacemente alla superficie per fare un po’ di surf dopo le nostre immersioni, a volte ci sentiamo viaggiatori e altre pantofolai. A volte siamo forti, altre basta un soffio di brezza ad affondare la barca nel mare in cui navighiamo. A volte ci sentiamo vicinissimi a un’idea, altre volte ne vediamo i limiti. Insomma, per fortuna siamo esseri umani animati dalla possibilità di indagare il mondo e di misurare, di volta in volta, le nostre idee senza avere una confezione già preparata. Per fortuna o per sfortuna, certo. Ma per alcuni di noi è così.
L’avviso ai naviganti riguarda lo stile del Mulino di Amleto che nel suo "non stile", nella sua voluta "non identificazione" con un -ismo o un -ista è in realtà caratterizzato da una scelta precisa: la navigazione perenne in mezzo alle isole che circondano il mondo, salpando qua è là in cerca di riflessioni pronte però a "redimersi" davanti a un’idea o a una proposta diversa. Perché possiamo sempre cambiare idea, fino alla fine. Che bello, forse è la nostra vera libertà.
p.s. nota di bordo:
Il mulino di Amleto non ha niente a che fare con Il mulino Bianco. Ma di questo parleremo nel prossimo post
CRAVATTE E PRIGIONI
Non sapevo che la cravatta in origine era usata dai mongoli per trasportare i prigionieri agganciati ai cavalli.
Ma, a rifletterci bene, la cosa non mi soprende. Anzi, trovo il fatto entusiasmante. Ne abbiamo fatto il simbolo del lavoro, della City londinese, di Wall Stree, del Giappone modello di professionalità e avanguardia. E invece…ha origine da uno strumento per imprigionare!
E infatti siamo tutti prigionieri, oggi, del modello del lavoratore indefesso, con la giacchetta doppio petto o quella "amazzonica", a un petto solo, e la camicia sartoriale firmata (quando c’è scritto il cognome, poi, è meglio spararsi). E infine c’è lei, la cravatta, a fare da ciliegina sulla torta…vestita.
In effetti giriamo con un cappio al collo, pagando magari una somma cospicua per averlo pure firmato. Di seta, colorata, a fiori, tinta unita…la cravatta abbellisce la nostra prigione quotidiana, trasformando il cappio al collo in un segno di eleganza e riconoscimento.
Il famoso nodo, poi, una vera "tortura". Bisognerebbe chiamare un marinaio. Almeno per quelle come me quando, ragazzina, a Cambridge circolavo con una cravatta rosa fucsia di pelle (le macchie della gioventù).
Ogni giorno il prigioniero del sistema professionale prima di chiudersi nelle celle- ufficio si lega da solo, e di cavalli, invece di uno, ne usa più di cento (infatti ci va con l’automobile, di solito), consegnadosi spontaneamente.
Il fatto è che più i capi sono capi, più sfoggiano belle cravatte. Beh, per fare di un antico strumento di costrizione un segno distintivo, uno status symbol del dirigente modello, di fantasia ce ne vuole. Poi dicono che i moderni hanno smarrito l’immaginazione…
p.s. a proposito, a Londra e in Giappone da quest’anno almeno d’estate molte aziende hanno consentito il vestito casual. Si sono accorte che le persone si sentono più a loro agio e serene. Già, chissà perchè…
TUR-ISMI IN FILA INDIANA
Spiaggia Adriatica. Un giorno qualunque di un agosto qualunque. A un certo punto mi imbatto, sulla riva, in un capannello di gente che oscura la fonte di una musica suggestiva, bellissima. Faccio capolino fra le teste e vedo due indiani d’America che suonano il tipico flauto di legno sul quale la bocca soffia appena sul margine del tubo ed esplode note antiche e struggenti.
Sono vestiti di tutto punto: copricapo di piume, collana di osso e turchese, mocassini di daino, completo frangiato e faccia dipinta di rosso. Bellissimi, davvero. E bellissima la musica. Evoca un tempo remoto in una terra distante, al di là dell’oceano. Penso a come doveva essere bello radunarsi la sera intorno al fuoco, a fumare e parlare, o raccontare ai bambini le storie nel ventre del tepee, cacciare il bisonte e ringraziarlo per il suo sacrificio, osservare i gesti d’aria e di nuvole dello sciamano che danza, vivere la confidenza con Madre Terra che ospista l’uomo e lo nutre (gli indiani infatti rifiutavano di coltivare la Terra che doveva rimanere vergine, inviolata). Ho sempre fatto parte di quelli che tifavano per gli indiani, io. Ho amato il Dustin Hoffmann di Piccolo grande Uomo, mi sono invaghita del bellissimo Daniel Day Lewis nel più commerciale, ma epico e romantico, L’ultimo dei Mohicani.
Mi sento a casa mentre i turisti che mi circondano all’improvviso mi sembrano un branco di deficienti. Una signora immortala la scena con il cellulare, un’altra addirittura registra la musica con il suo telefonino che tiene sospeso nell’aria come un microfono (ciao da dove vieni? ci parli di te?), un uomo ciccione riprende tutta loa scena con il suo multifunzione.
Tutti uguali. La faccia bollita dal sole, i parei copri-crateri-di-cellulite delle signore, il borsellino appeso alla vita, i solari spalmati come nutella che riempiono l’aria e la rendono omogenea (e coprono anche, per fortuna, qualche ascella fetente), le macchine fotografe al collo. Ci sono anche i soliti coglioni con la radiolina, che si aggirano sulla riva come fossero poliziotti che si comunicano la postazione.
Poi arrivano delle note che mi pare di conoscere bene. Infatti, è proprio il tema dell’Ultimo dei Mohicani! E un dubbio antipatico come una zanzara tigre comincia a ronzarmi in testa: è L’ultimo dei Mohicani ad aver ripreso la musica indiana o sono loro, gli indiani, a cantare il mtoivo dell’Ultimo dei Mohicani??
Fine dell’atmosfera selvaggia e remota. Un terzo indiano fruga in un borsone nero, tira fuori un cellulare e lo rimette dentro (un cellulare? ma non erano meglio i segnali di fumo? appoggiare l’orecchio al terreno? non cedete ai vizi della globalizzazione, dài! non voi! resistete!) poi tira fuori dei cd che mette in vendita. Chiedo alla signora accanto a me di mostrarmi il cd che ha appena comprato. Alma nativa, il titolo. Scorro i titoli e il dubbio diventa certezza: eccolo lì, The last of Mohicans. Perfino in inglese, la lingua della coca cola e di tutte le globalizzazioni. Ha vinto Hollywood.
Possibile che una tradizione antica e profonda come la loro abbia bisogno di attingere al film di Michael Mann per attrarre il turista? Una tradizione di canti e musiche bellissime, particolari, segno di una cultura che ancora oggi mostra la sua straordinaria saggezza…Eppure è così, siamo nell’era del turismo globale e loro si sono attrezzati. Mi mette addosso una malinconia appiccicosa come un vizio che non se ne va.
Del resto che pretendiamo, noi che per primi abbiamo esportato ovunque il nostro "progresso" omologando popoli e tradizioni? Che facciamo i turisti da spot cercando di mangiare gli spaghetti in Irlanda, o girando il mondo sulla piscina delle Crociere Costa (quando si dice tutto il mondo è paese, anzi nave), radunandoci nei mac donald di tutto il pianeta…Basta avere il telefonino, come nello spot della Tim (o Vodafone, non ricordo e non voglio), e perfino in mezzo alle rocce deserte puoi mandare in vacca un matrimonio e scipparti la fidanzata. Così ce l’ha anche l’indiano, il suo telefonino uguale ai telefonini di tutto il mondo, e per vendere meglio i cd utilizza bene il successo del film con Daniel Day Lewis. Che mi era piaciuto, appunto, ma era un film…questi qua sono indiani veri.
Insomma mi congedo con un po’ di tristezza addosso. Del resto anche loro devono sbarcare il lunario, e oggi si fa prima se si usano i codici di un mondo riconoscibile ovunque, perché alla fine, ancora oggi, dopo millenni, ciò che ci atterrisce di più è lo sconosciuto…le note di The last of Mohicans le conosciamo, ci piacciono, ci fanno pensare alle magiche atmosfere del film. Non possiamo sbagliarci. Noi siamo il progresso, il multifunzione, il cinema e lo spettatore. Meglio che il particolare diventi l’universale in cui il segno familiare crea riconoscibilità. I visi pallidi non sono cambiati. Oggi come allora.
CHE BRUTTA INVENZIONE
"Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d’infanzia, a una Disneyland senza confini. Presto anche nella vecchia, remota capitale reale del Laos sbarcheranno a migliaia questi nuovi invasori, soldati dell’impero dei consumi e, con le loro macchine fotografiche, le loro implacabili videocamere, gratteranno via quell’ulltima naturale magia che è lì ancora e dovunque.
Perché in Asia, quando un vecchio si vede puntare addosso una macchina fotografica, si volta, resiste, cerca di nascondersi, si copre la faccia? Lo fa perché pensa che quella macchina gli porti via qualcosa di suo, qualcosa di prezioso che non può ritrovare. E non ha forse ragione? Non è anche nell’usura di decine di migliaia di foto, scattate da turisti distratti, che le nostre chiese hanno perso la loro sacralità, che i nostri monumenti hanno perso la loro patina di grandezza?"
Ecco, così scrive Terzani nel suo Un indovino mi disse. E ha ragione, perdio. Le macchine fotografiche "rubano" in continuazione, tolgono la vita palpitante in cambio di una fissità. La macchina fotografica è uno dei simboli più scintillanti del turismo usa e getta (pensiamo ai giapponesi che fotografano – imbambolati - la scritta Valentino sul negozio di Via Condotti, o la banca dove hanno cambiato i loro soldi), ora spesso rimpiazzata dal cellulare multiuso che – clic clic – scatta foto in un battibaleno. Ma noi siamo i civilizzatori civilizzati. Continua altrove Terzani, sempre nello stesso libro, parlando della reticenza del Laos a essere modernizzato e turistizzato, reticenza che a un certo punto è obbligata a piegarsi:
"Non perché i Lao abbiano improvvisamente cambiato idea, ma perché oggi un paese al bivio fra la modernizzazione-distruzione e un isolamento che conservi la sua identità è in realtà senza scelta: gli altri hanno già scelto per lui. Gli uomini d’affari, i banchieri, glie sperti delle organizzazioni internazionali, i funzionari dell’ONU e quelli dei governi di mezzo mondo sono ormai tutti convinti profeti dello "sviluppo" a ogni costo; tutti credono in una sorta di missione, per tanti versi simile a quella del generale americano che in Vietnam, dopo aver raso al suolo un villaggio occupato dai Vietcong, disse, con l’orgoglio di chi è convinto d’aver compiuto un’opera meritoria: "Abbiamo dovuto distruggerlo per salvarlo".
Anche il turismo crea queste flotte itineranti che premono affinché ogni paese apra le sue porte all’invasione di plastica, quella che alla fine ci fa sembrare tutti uguali, tutti fratelli in nome della Coca Cola e del duty free shop. Ora, Terzani suo malgrado sarà diventato pure un’icona dei no-global (che spesso distruggono, anche loro, le città…per salvarle), un santone del non consumismo da consumare in fretta, come tutto, ma HA RAGIONE.
Ieri seduti a un caffé senigalliese un amico romano rimpiangeva la mancanza di wireless. "Pensa, potremmo stare qui seduti davanti al nostro computer!" Ma che schifo, io invece preferisco ancora parlare. E guardarmi intorno. Guardare qualcuno negli occhi invece di fissare uno schermo. Due turisti accanto a noi lavoravano sul loro portatile sorseggiando distrattamente un succo di frutta. Si viaggia così, oggi? Pare di sì…
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