Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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IDOLI

 

"É tipico dell’insaziabilità, ma anche della veemenza degli anni giovanili, che un fenomeno, un’esperienza, un modello scacci da solo tutti gli altri.

Siamo allora ardenti e pronti a espanderci, afferriamo questo e quello, lo rendiamo il nostro idolo, ci assoggettiamo a esso, aderendovi con una passione che esclude tutti gli altri. E non appena uno ci delude lo facciamo precipitare dalla sua altezza e lo frantumiamo senza esitazioni; non vogliamo essere giusti: ha contato troppo per noi.

Tra i frantumi del vecchio idolo inseriamo l’idolo nuovo. Importa poco che esso si trovi a disagio. Siamo capricciosi e arbitrari con i nostri idoli; non badiamo alla loro sensibilità; esistono per essere innalzati e abbattuti e si susseguono in numero stupefacente, tanto diversi e opposti tra loro che rimmarremmo sorpresi se potessimo abbracciarli tutti con un solo sguardo"

(Elias Canetti, La coscienza delle parole)

Ha ragione, Canetti. All’interno di ogni uomo, gruppo, nazione, vive una sorta di "reliquiario", una galleria di personaggi amati, innalzati e successivamente abbattuti, come le statue dei dittatori. Ma non c’è senso di giustizia o attenzione verso l’esistenza di questi idoli in quanto rappresentano la coagulazione, la proiezione magnifica e scintillante dei nostri sogni, bi-sogni (e delle nostre paure).

Quanta fatica per non costruire icone! Ma non ci riusciamo. L’uomo ha bisogno di un dio vicino, più vicino di quello della sua religione, non importa quale essa sia. E guai se fosse un dio che tradisce: ecco allora che subito ne troviamo un altro, sempre pressati dal bisogno di quella perfezione che invece, per fortuna, sfugge ai confini della nostra esistenza piccina, fragile, limitatissima.

Il "tradimento" poi è tale solo in quanto siamo "noi" a viverlo così.

Canetti come sempre è un genio dello scavo esistenziale. Nella sua riflessione ognuno di noi può specchiare sé stesso e tutti gli idoli che mano a mano si è costruito.

Tutti gli idoli che si sono sfracellati gettandosi dalla roccia della nostra delusione nel momento in cui non ci hanno più rassicurato, né soddisfatto; tutti gli idoli in panchina pronti per una fulminea sostituzione; tutti quelli che a un certo punto hanno vacillato sul filo di rasoio delle nostre aspettative; i salvati e i sommersi; tutti gli idoli levigati con la cera, oliati e profumati, e tutti quelli dimenticati nella soffitta della memoria, nelle cantine delle perdute speranze.

Sempre pronti a trovarne uno, cento, diecimila. Non riusciamo a vivere senza perché saremmo costretti ad affrontare noi stessi.

Se tutti gli idoli si ribellassero, come fa Hal 9000 nel film di Kubrick, allora forse avremmo una speranza in più, anche se insieme a un oceano di solitudine.

Quando eravamo piccini erano la nostra bambolina preferita, appoggiata sul cuscino accanto a noi, o i pupazzetti disposti sui confini del letto come tanti villini a schiera, a farci compagnia.

Da adulti, ci corichiamo con l’immagine dei nostri.

Ma non abbiamo mollato, oggi come allora, il nostro romantico, caparbio, "scudo stellare";  la disperata proiezione salvifica capace di estinguere le nostre insicurezze.

Poco importa che  abbia la faccia di Che Guevara o di Mao, di Madonna o di Jim Morrison, del guru o del fidanzato: si tratta sempre dell’icona irrinunciabile alla quale ci appendiamo come una scimmia sull’albero.