L’INFANZIA PERDUTA
Mi ricordo all’improvviso di quando ero bambino e vedevo, come non posso vedere oggi, il mattino che sfavillava sulla città. Essa allora non sfavillava per me, ma per la vita, perché io allora, non essendo cosciente, ero la vita.
Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste.
Il bambino è rimasto, ma è ammutolito.
Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi e a fare appassire i fiori prima che fioriscano.
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)
Sì. La sensibilità dolorosa di Pessoa, pensatore impietoso, profondo, che osserva la Sfinge della vita senza evadere l’eterna domanda, ci regala – in questo libro straziante ma imprescindibile – riflessioni sulla necessità di esistere malgrado i nostri rifiuti.
E la sua penna, che vola sulle ali di un Mercurio sottilissimo, speciale, atterra nella radura dell’infanzia, intercettando il brulicare della vita prima che la vita stessa si separi, staccandosi dall’uomo come fa la donna che rimane a fissare, in una stazione, quel finestrino del treno in partenza la cui progressiva velocità sfuma e scompone i tratti del volto amato, d’ora in poi vivo solo nella memoria ebbra delle congiunzioni carnali.
Quando siamo piccoli facciamo l’amore con l’esistenza. Siamo amanti implacabili, ineffabili, che non si sforzano di catturare perché già sono, non hanno bisogno di possedere trattenendo con sforzo il mondo per paura che fugga via.
Una volta adulti, ci trasciniamo dietro il ricordo di quando il mondo era, e non sembrava.
Lo appoggiamo sul nostro carretto, un po’ come fa la Morte nel Settimo Sigillo di Bergman, fino al giorno in cui non sarà restituito alle stelle.
Non c’è solo il gaio fanciullo celebrato da Pascoli, accanto a lui vive anche il fanciullo sul quale la malinconia scende come neve in primavera.
La neve è l’ingresso della separazione del soggetto dall’oggetto, l’allontanamento da quel mondo primitivo di fusioni in cui i confini ancora non hanno tracciato i nostri "Stati" interiori, da quella primavera del mondo che in sé unisce ogni cosa.
Il bambino è rimasto, ma è ammutolito.
Ogni volta che ci osserviamo osservare qualcosa, la bocca di quel bambino cerca di bisbigliare un segreto che tanto tempo fa conoscevamo.
Ritrovare quel tempo significherebbe tornare alle aurore di cui eravamo essenza e colore.
LEGGERE, VIVERE…
Il lusso di leggere. Com’era bello quando ero ragazzina, e avevo tutti i pomeriggi della mia vita per leggere.
Ficcavo mente e pancia in ogni libro.
Pazza per la letteratura francese, ubriaca dei russi, sospesa nelle atmosfere inglesi, quelle in cui ciondola il tempo, si dilata e poi scoppia, esplode in una bolla che si porta via le ore.
Mi ricordo di quella domenica mattina in cui lessi, senza interruzioni, lo giuro, M.me Bovary. Tutto d’un fiato. Cinque ore. A pranzo avevo finito di sbirciare nella sua vita clandestina, e lei di guardare dalle pagine del libro i poster della mia stanza.
Il tempo della mia adolescenza, della nostra adolescenza, è cadenzato dai libri in cui anneghiamo. E’ allora che prende forma quella tentazione di esistere nelle pagine che fissano i moti dell’animo, rovistano nel sottosuolo, cercano di trafiggere il cielo.
Un’"età lirica", per dirla con Kundera, in cui i nostri amori carnali convivono con le passioni della mente che fiorisce, man mano, e dona i suoi frutti maturi, riscaldata dal sole dei gusti letterari che andiamo scoprendo.
Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di sentire il "brivido alla colonna spinale" di cui parla Nabokov, quel tremore che coglie chi varca la terra dei buoni lettori.
Ma la vita scorre, si cresce. Le passioni a un certo punto devono convivere con la necessità di misurarsi con il mondo, quello stesso mondo che, letto, fa un altro effetto, più rarefatto, meno "cattivo". Sì, meno cattivo. Malgrado Dostoewskj e i suoi demoni, i suoi incredibili, magmatici sotterranei.
Il mondo "vero", là fuori, lui sì, conosce la spietatezza del boia.
E ricordi con nostalgia com’era bello quando avevi i pomeriggi interi da sgranocchiare leggendo i tuoi autori. Quando sei grande, anche se fai un mestiere culturale, anche se hai la dannazione e il privilegio di farlo, non è più come prima.
Le fanciulle in fiore sono cresciute, non ti salutano più con la manina dal molo.
E così, quando ti ritrovi con un libro in mano, il gatto rannicchiato nella piega del gomito mentre fuori piove (è banale, lo so, ma dannatamente bello, bello e basta), ti ritrovi a pensare ai giorni del tuo tempo perduto.
Com’è facile, a dire il vero, leggere e filosofare. Esercitare la sensibilità mentre senti che l’anima preme sul petto quasi cercando, là fuori, quel soffio divino di cui, dicono, è respiro. Respiro del suo respiro. Come sangue del sangue, come un figlio.
Leggere nobilita, fa sentire migliori.
Come sarebbe bello non lavorare. Trascorrere le giornate osservando gli scatti cromatici del cielo in cui si disegnano gli umori del tempo, passare in rassegna con il dito il filare di libri esitando sui titoli comprati e magari mai letti, per poi distendersi annusando la pagina come fosse un feticcio, con il suo odore di stampa che copre le puzze del mondo.
Però il mondo, là fuori, c’è lo stesso. E se la lettura è un momento fondamentale, è solo là fuori che veniamo temprati. Non con il liuto e con l’armonica, ma con il ferro e il fuoco.
Certo, camminare sui carboni ardenti del quotidiano sembra far tutto tranne mangificare la nostra anima, svegliarne la sensibilità.
Il mondo è duro, rozzo, impietoso. Ogni giorno provano a farti male, e devi lottare, lottare fino alla radice della tua esasperazione, misurarne il limite e superarlo. Egoismi, arrivismi, nepotismi, qualunquismi, banditismi, menefreghismi…Una galassia di ismi in cui ti perdi, inghiottito da un buco nero.
Lì però, esattamente lì, e non altrove, le tue belle letture vengono messe alla prova.
Non la prova effimera della sofisticata, aurea conversazione intellettuale in cui qualunque animo sensibile, educato alla lettura, si cimenta con eleganza, imbellettando pause e parole.
E vengono fuori i tuoi limiti, "là fuori", nella parola vissuta e non letta, non scritta.
Si affacciano i mostri, le resistenze, le piccole vigliaccherie di ogni giorno. E accanto a queste, la fiaccola della coscienza cerca di non perdere mai quel sentiero che sta seguendo, sentiero di elevazione dall’umana miseria.
Ma è lì, nell’orribile, meraviglioso e difficile mondo, che tu sai chi sei veramente. Lì non "leggi" i demoni dostoewskjani, lì incarni. E sempre lì subisci la tentazione di Anna Karenina, e puoi decidere se inclinarti verso l’istante fatale oppure incamminarti sulle orme di un più saggio pensiero.
E come i Malavoglia conti ogni giorno quanti lupini hai nel sacchettino.
Lupini, stupidi lupini. Ma ne abbiamo bisogno per vivere.
La nostra bella biblioteca deve fare i conti con la fatica di essere scagliati ogni mattina in un mondo che a volte pare il risultato non di un sogno divino ma dell’incubo di un fauno che ha appena ucciso le ninfe e le ha fatte a pezzi con il coltello.
Quel mondo, quel mondo che ti ruba le ore, declina le giornate programmando il quotidiano furto della tua libertà, è anche l’arena in cui scopri te stesso.
Il viaggio, qualunque viaggio, non lo si legge. Lo si fa.
E allora se da un lato hai perduto la cuccia ovattata in cui l’anima si rannicchia sognando di fare il grande salto in cerca del suo respiro latteo, stellato, come i sentieri delle stelle notturne, dall’altro lato senti anche che la tua crescita si misura attraverso la sfida dell’impatto del mondo sulla tua pelle. Oltre la tua pelle.
Il libro è un fedele, taciturno compagno. Non usiamolo per schivare la vita che per sua stessa natura è fatta di relazione con l’altro. A volte è più facile amare un albero, o un gatto, piuttosto dell’uomo.
Così come è più facile consegnarsi all’icona di un "io lettore" che cercare di verificare con la bilancia della giustizia quanto ciò che leggiamo fa parte di noi o rimane un coltissimo, delizioso corredo mentale.
Ci vuole una spada, nel mondo. I tuoi compagni di carta e parole sono lì, ma l’esercito sei tu stesso, così come sei, in fondo, anche il nemico.
Troppo spesso i buoni lettori usano il libro non come spada ma come scudo, come difesa, una pelle per coprire ferite tremanti che vengono avvolte nella carta, suturate dall’inchiostro delle parole.
In quei momenti, la sera, quando spegni la luce sul mondo senza aver letto una sola pagina del libro che hai accanto al divano, pensi che si tratta semplicemente di un altro tempo che non coincide più con gli amori sfrenati della tua adolescenza, neanche quelli rilegati o cuciti a filo refe.
Ora è il tempo di fare i conti con le asperità di un mondo fracassone e selvaggio, d’accordo. Ma che importa?
Solo così capisci che ci sono un solo libro, un solo lettore. E nessun libro, nessun lettore.
IL TEMPO DEI NOSTRI AMORI
Nelle persone che amiamo, c’è, immanente in loro, un qualche nostro sogno che non sempre sappiamo discernere, ma che perseguiamo. Era stato il mito di Bergotte, di Swnn, a farmi amare Gilberte; il mito di Gilberto il malo a farmi amare la duchessa di Guermantes.
E quale vasta distesa marina era stata riservata, per quanto doloroso, geloso, individuale esso potesse apparire, al mio amore per Albertine!
Del resto, proprio per queste qualità individuali su cui ci accaniamo, i nostri amori per le persone sono sono già aberrazioni.
(Marcel Proust, Alla ricerca del Tempo perduto, vol. XVI, Il tempo ritrovato, Einaudi)
Oggi pomeriggio, mentre stavo trafficando sulla mia biblioteca alla ricerca di un libro (sono disordinatissima, purtroppo), mi sono imbattuta in Proust.
Una vecchia, straordinaria conoscenza. Anni fa, approfittando della sosta forzata dovuta a una malattia che i medici non riuscivano a diagnosticare, ho avuto il privilegio di leggere tutta la Recherche.
Ricordo di avere passato notti e giornate intere con gli occhi incollati sui libri.
Semplicemente, Proust aveva sovrapposto il suo tempo al mio.
Mi aveva trascinato in una zona remota, priva di confini materiali, sospesa tra cielo e terra.
E mi sono innamorata. Della sua scrittura, della sua sensibilità, del suo pensiero. Mi sono innamorata di quelle descrizioni pittoriche in cui sembra di muoversi all’interno di un quadro impressionista.
Malgrado siano passati vent’anni, ricordo ancora con impressionante nitore la minuziosa descrizione del sole che gioca sul vestito bianco di Odette, mentre lei tiene in mano il suo grazioso ombrellino, e sorride, mentre sull sfondo il parco la trattiene in una cornice.
Cercavo proprio quel passaggio (grazie all’abitudine, poi smarrita nel tempo, di segnare con un lapis blu le frasi più belle dei libri che leggevo) e invece mi sono ritrovata fra le mani l’ultimo volume della Recherche.
Aprendo le pagine a caso, ecco che sosto su questo passaggio che allora, come oggi, mi aveva colpito.
Quella di Proust è un’opera immensa in cui i percorsi individuali si fondono ai ritratti sociali (come quelli che avvenivano nel salotto dei Verdurin), in cui la riflessione filosofica incrocia una sensibilità estrema tesa fino alla curva del cielo.
Eppure l’amore, in ogni sua variante, rimane il tema di fondo da cui parte ogni sinfonia.
Pochi hanno saputo osservare il caleidoscopio dei sentimenti con la sua stessa sensibilità.
Tutto pelle, Proust. E cervello, tanto cervello.
Gli amori narrati nel suo libro sono dolorosi, estatici, a volte clandestini (l’omosessualità del barone di Charlus).
Ma tutti sono dotati di un’anima, quella che la penna di Proust ha plasmato dalla creta del suo pensiero.
E svicolano dalle maglie del tempo perché vivono in un altro tempo, quello stesso tempo analogico che rappresenta il filo di tutta la Ricerca.
Aprire il libro, dopo tanti anni, per ripercorrerne alcuni passaggi, è stato un po’ come dare un morso alla mia madeleine.
Ho sentito affacciarsi una malinconia profumata che però è rimasta sospesa sulla finestra della memoria, allontanandosi senza fare rumore.
Non si può tenere fra le mani in un libro di Proust senza ritrovare il nostro tempo perduto.
SCHIAVI PROFESSIONISTI
Liberi professionisti. Macché. Da quando sono una libera professionista sono prigioniera. La chiave della mia cella è stata gettata via insieme ai miei week-end.
A volte guardo i dipendenti. E li invidio.
A che ti serve sapere di poter andare al cinema un martedì pomeriggio se poi all’uscita, se per caso “hai osato”, ti ritrovi una sfilza di telefonate che solo a scorrere la lista di sms che ti è arrivata impieghi lo stesso che servì a Marco Polo per arrivare alla Muraglia Cinese?
A che serve l’idea – solo l’idea, accidenti – di “fare sega” per un giorno intero?
Il fatto è che il lavoro aumenta, la responsabilità getta a terra le ali svagate dei tuoi desideri di ozi e piaceri, di ritagli di tempo tutti per te.
Non ci credevo, una volta. Come tanti ragazzini pensavo, allora, che fare il dipendente fosse “roba da sfigati”.
Sapere di uscire tutti i giorni, dico tutti i santi giorni della tua vita, esattamente alla stessa ora, fare lo stesso percorso, affannarti per timbrare il cartellino (un po’ come quando ogni giorno dovevi consegnare i compiti alla maestra, in fila dietro ai tuoi compagni di classe), clic clic clic, sono puntuale, sono un bravo impiegato, cartellino timbrato…Beh, sapere tutto questo mi metteva angoscia.
In più i vecchi film di Fantozzi – spietatissimi, crudeli, implacabili – sui tormenti della vita impiegatizia non aiutavano certo. Magari oggi è meglio, magari oggi le “human resources” e i corsi di filosofia greca nelle aziende hanno “umanizzato” quell’ambiente mostruoso (come mostruosa era la figlia del povero Fantozzi, Cita Haywort), vuoto di umanità e giustizia.
L’epica fantozziana è rimasta impressa nelle nostre memorie.
Sì, certo, oggi le aziende sono diverse. Rimane il fatto che non è bello vivere con un orologio sopra la testa che, al posto della nuvoletta di pioggia, ti ricorda la tua sfiga in continuazione.
Dicevo, ci credevo, una volta, all’idea del dipendente tristarello e rinchiuso nella sua triste vita.
Ma non è mica così.
In fondo lui ha anche le ferie pagate, le tredicesime, le quattordicesime, le ventesime. E, soprattutto, se non è alle dipendenze di un vero stronzo…esce in tempo, la sera, per fare la spesa e magari pure un po’ di palestra. Il week end nessuno gli rompe le palle per trascinarlo in ufficio.
Il libero professionista, invece, in teoria potrebbe godere della libertà sistemandosi sopra la testa un bel sole che manda in soffitta l’orologio dei condannati.
Ma non è così.
In pratica sta sempre a lavorare. Anche i sabati e le domeniche. Sia che abbia una ditta individuale (allora entra nel girone degli imprenditori, che manco Dante potrebbe spostarlo) o che faccia il consulente con P.I. (Perché Io), la vita non è certo migliore di quella del Fantozzi di turno.
Perché ci ostiniamo a chiamare liberi professionisti quelli che, in realtà, lavorano molto di più rispetto al periodo in cui, magari, erano stati assunti (o comunque avevano goduto di cococò, rococò o bobobò)?
Il libero professionista è fottuto. Non ha garanzie se non quella di una ideale, utopica libertà con la quale baratta le sue giornate di sessantasei ore. Fa pensare a quelle cartoline romantiche con la scritta “Saluti da” preparate apposta per il turista coglione.
Allo stesso modo molti liberi professionisti vivono in un sogno posticcio che naufraga, però, davanti all’evidenza delle giornate.
Non sarebbe meglio chiamarli schiavi professionisti? Sono comunque più fortunati di Fantozzi.
In fondo, Cita Hayworth non è la loro figlia.
CAVALIERI
"Sono un cavaliere – dicevi nella tua mente – in quale modo potrò vivere come un maiale?".
Sai cosa significa cavaliere? É una parola antica, antichissima. Significa servo, ed è giusto che sia così, poiché chi vuole comandare deve imparare venendo comandato".
(Steinbeck, Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri)
Chi frequenta il Mulino lo sa benissimo. Sa che la sua proprietaria adora le saghe arturiane perché non perde occasione per richiamare alla memoria le gesta di Artù, Lancillotto, Merlino…
Al di là delle facili, banali appropriazioni ideologiche (questo libro è di destra, questo di sinistra, e via discorrendo, mentre la letteratura è di tutti, come il pensiero raffinato, sublime, che andrebbe fermato…un istante prima del "marchio"), la saga del Graal è una storia eterna, senza confini e senza tempo.
Ma, soprattutto, si dimostra, come molti miti e leggende, tremendamente attuale.
Soprattutto nell’era del "siamo tutti maestri", del "so tutto io", delle iperspecializzazioni (l’unica area priva di addetti ai lavori rimane quella dell’umiltà), ciò che dice la dama Lynn – c’erano sempre le dame, cioè il femminile, a guidare i cavalieri, i guerrieri, facendoli errare (nel doppio senso della parola) si rivela molto saggio. E il senso della sua frase riflette un concetto troppo spesso dimenticato: chi vuole essere re deve farsi servo.
Essere umili è in realtà un atto di guerra. Di guerra interiore.
Quanto ci costa caro, questo atto, ogni volta che il nostro piccolo, micragnoso e pusillanime Io si ribella per sconfinare, predare, attecchire, proliferare.
Vogliamo tutti "comandare", e mai servire. Fa paura, servire.
Eppure quello è il vero, autentico cavaliere. Non quello blasonato. Nè quello "arrivato", come il Berlusconi di turno.
Un cavaliere errante che percorre un regno interiore. Erra, cioè vaga ma allo stesso tempo sbaglia. Perché se non mi muovo non corro il rischio di sbagliare, mai.
Ma in questa avventura si impara a servire il prossimo, e a servire un Sé nascosto sotto gli stracci, il più volte delle volte (non a caso spesso nelle leggende il vero re si presenta povero, privo di diamanti e blasoni, come lo stesso Artù) a testimoniare che il vero "regno interiore" passa attraverso l’umiltà, il farsi "piccoli", vicini alla terra.
Le parole della dama Lynn non fanno certo piacere. Eppure chiedono di fare una guerra. La più difficile, la più drammatica delle battaglie.
Quella contro il nostro egoismo.
TU BLOGGER, IO JANE…
Sì, per il Time il personaggio dell’anno sei tu. Proprio tu. Dico a te.
E sono io. Insomma siamo tutti "noi", cioè gli abitanti della blogosfera planetaria.
Gli smanettatori di Internet, i drogati da blog, i registi di You Tube, i giornalisti dei podcast, gli opinionisti dei forum…
Certamente una virata interessante, quella della celebre rivista inglese che ogni anno sforna una importante copertina "dedicata a".
Insomma, il 2006 si è chiuso con la celebrazione del web come protagonista.
Sicuramente i dati sul fatturato pubblicitario del 2005-2006 sono più che incoraggianti (internet batte tv 1 a 0), certamente l’era definita Web 2.0, cioè il secondo ciclo di internet, offre un rilancio e un nuovo atteggiamento che sembra aprire orizzonti molto più vasti di quelli annusati nel "Vecchio Testamento" della rete.
Però…
Però qualcosa non fila. Forse.
Questa copertina è troppo gonfiata, troppo enfatica. Sembra un po’ la vecchia locandina con lo zio Sam che tutto felice riciclava i soldati (I want you for the Us army), appesa con disinvoltura nelle case di tanti americani.
O, peggio ancora, il click meccanico dell’occhio del Grande Fratello (quello orwelliano, non la stronzata tv con cui si sbronza la gente).
Ci spieghiamo meglio.
Benissimo per l’importanza riconosciuta al mondo del web, innegabile e benvenuta, perché no? Altrimenti chiuderemmo subito anche la casa del Mulino per costruirne una di mattoni oppure, visti i tempi che circolano, di fango e paglia.
Se siamo qui è perché ci crediamo, nel web. E lo usiamo. Moltissimo.
Però questi eccessi lasciano sempre una perplessità di fondo. "You control the information Age".
Beh, sì. Ma è vero e non vero.
Internet è una smisurata, iperbolica cassa di risonanza: se dico una boiata vengo screditato immediatamente, messo in una pubblica gogna che in pochi secondi fa il giro del mondo, espondendomi, nudo come un verme, alla vergogna.
Sì, verissimo.
I blogger crescono nella blogosfera, contribuiscono anche all’informazione e la influenzano (come nel caso del fotografo licenziato da una famosa agenzia perché un blogger americano riconobbe che aveva "truccato" una foto).
Verissimo, anche questo.
Tuttavia ci riserviamo il diritto allo scetticismo sull’annunciato controllo dell’informazione.
O meglio, ci poniamo il dubbio sull’altro risvolto della medaglia, quello che rende amletico questo Mulino…
Siamo davvero sicuri che ubriacando i navigatori con il "potere" della scrittura e del commento raggiungiamo il controllo dell’informazione?
Ogni volta che una massa è stata convinta di avere qualche potere è stata puntualmente fregata. Basta guardare quello che è successo con il comunismo.
O con le rivoluzioni in cui, alla fine, a condurre sono sempre stati i borghesi, malgrado si sventolasse ogni volta una qualche bandiera proletaria issata dalla coscienza di classe (a partire dalla Rivoluzione Francese).
C’era un volta un tizio, chiamato Pasolini, che lo aveva capito. E che ci manca tanto, davvero tanto.
Ma torniamo alla democrazia proletaria del web.
Ah già, qui siamo liberi, qui non c’è dittatura né verticalità.
Domanda: sicuri?
Perché almeno uno scampolo di dubbio (microscopico, infinitesimale) dovremmo riservarcelo, no?
Così, fosse anche solo per centrifugare un poco il cervello.
Insomma, andiamo, credere davvero che il web sia solo la Terra promessa, Lamerica delle libertà senza poteri è vagamente fanciullesco.
Come ogni altra realtà, invece, miscela delizie e schifezze.
Però l’uomo di internet non è l’Uomo Nuovo, per dirla in breve. Per quello ci vuole più impegno.
Rimaniamo felicissimi dell’uso del web (tanto che chi scrive lo ha integrato nella sua professione facendone una componente essenziale), solo vorremmo che non ci scambiasse, il Time, per farlocconi.
Magari bastava solo l’immagine dello schermo insieme alla prima e all’ultima frase.
E’ che quell’ "You control the information age" risulta davvero antipatico. Posticcio.
Perché chissà, magari ci viene sempre in mente che "la migliore invenzione del demonio è quella di aver fatto credere che non esiste".
A volte capita infatti di sventare facilmente i dilemmi tacciandoli di falsi allarmismi, complottismi, sofisticazioni mentali da criminologia.
E così, invece, noi dubitiamo delle maiuscole, dei grassetti e degli esclamativi.
Preferiamo il vecchio, inquieto punto interrogativo.
Io Cita?
Va bene lo stesso…
Pagina 69 di 83