Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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LEGGERE, VIVERE…

 

 

 

 

Il lusso di leggere. Com’era bello quando ero ragazzina, e avevo tutti i pomeriggi della mia vita per leggere.

Ficcavo mente e pancia in ogni libro.

Pazza per la letteratura francese, ubriaca dei russi, sospesa nelle atmosfere inglesi, quelle in cui ciondola il tempo, si dilata e poi scoppia, esplode in una bolla che si porta via le ore.

Mi ricordo di  quella domenica mattina in cui lessi, senza interruzioni, lo giuro, M.me Bovary. Tutto d’un fiato. Cinque ore. A pranzo avevo finito di sbirciare nella sua vita clandestina, e lei di guardare dalle pagine del libro i poster della mia stanza.

Il tempo della mia adolescenza, della nostra adolescenza, è cadenzato dai libri in cui anneghiamo. E’ allora che prende forma quella tentazione di esistere nelle pagine che fissano i moti dell’animo, rovistano nel sottosuolo, cercano di trafiggere il cielo.

Un’"età lirica", per dirla con Kundera, in cui i nostri amori carnali convivono con le passioni della mente che fiorisce, man mano, e dona i suoi frutti maturi, riscaldata dal sole dei gusti letterari che andiamo scoprendo.

Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di sentire il "brivido alla colonna spinale" di cui parla Nabokov,  quel tremore che coglie chi varca la terra dei buoni lettori.

Ma la vita scorre, si cresce. Le passioni a un certo punto devono convivere con la necessità di misurarsi con il mondo, quello stesso mondo che, letto, fa un altro effetto, più rarefatto, meno "cattivo". Sì, meno cattivo. Malgrado Dostoewskj e i suoi demoni, i suoi incredibili, magmatici sotterranei.

Il mondo "vero", là fuori, lui sì, conosce la spietatezza del boia.

E ricordi con nostalgia com’era bello quando avevi i pomeriggi interi da sgranocchiare leggendo i tuoi autori. Quando sei grande, anche se fai un mestiere culturale, anche se hai la dannazione e il privilegio di farlo, non è più come prima.

Le fanciulle in fiore sono cresciute, non ti salutano più con la manina dal molo.

E così, quando ti ritrovi con un libro in mano, il gatto rannicchiato nella piega del gomito mentre fuori piove (è banale, lo so, ma dannatamente bello, bello e basta), ti ritrovi a pensare ai giorni del tuo tempo perduto.

Com’è facile, a dire il vero, leggere e filosofare. Esercitare la sensibilità mentre senti che l’anima preme sul petto quasi cercando, là fuori, quel soffio divino di cui, dicono, è respiro. Respiro del suo respiro. Come sangue del sangue, come un figlio.

Leggere nobilita, fa sentire migliori.

Come sarebbe bello non lavorare. Trascorrere le giornate osservando gli scatti cromatici del cielo in cui si disegnano gli umori del tempo, passare in rassegna con il dito il filare di libri esitando sui titoli comprati e magari mai letti, per poi distendersi annusando la pagina come fosse un feticcio, con il suo odore di stampa che copre le puzze del mondo.

Però il mondo, là fuori, c’è lo stesso. E se la lettura è un momento fondamentale, è solo  là fuori che veniamo temprati.  Non con il liuto e con l’armonica, ma con il ferro e il fuoco.

Certo, camminare sui carboni ardenti del quotidiano sembra far tutto tranne mangificare la nostra anima, svegliarne la sensibilità.

Il mondo è duro, rozzo, impietoso. Ogni giorno provano a farti male, e devi lottare, lottare fino alla radice della tua esasperazione, misurarne il limite e superarlo. Egoismi, arrivismi, nepotismi, qualunquismi, banditismi, menefreghismi…Una galassia di ismi in cui ti perdi, inghiottito da un buco nero.  

Lì però, esattamente lì, e non altrove, le tue belle letture vengono messe alla prova.

Non la prova effimera della sofisticata, aurea conversazione intellettuale in cui qualunque animo sensibile, educato alla lettura, si cimenta con eleganza, imbellettando pause e parole.

E vengono fuori i tuoi limiti, "là fuori", nella parola vissuta e non letta, non scritta.

Si affacciano i mostri, le resistenze, le piccole vigliaccherie di ogni giorno. E accanto a queste, la fiaccola della coscienza cerca di non perdere mai quel sentiero che sta seguendo, sentiero di elevazione dall’umana miseria.

Ma è lì, nell’orribile, meraviglioso e difficile mondo, che tu sai chi sei veramente. Lì non "leggi" i demoni dostoewskjani, lì incarni.  E sempre lì subisci la tentazione di Anna Karenina, e puoi decidere se inclinarti verso l’istante fatale oppure incamminarti  sulle orme di un più saggio pensiero.

E come i Malavoglia conti ogni giorno quanti lupini hai nel sacchettino.

Lupini, stupidi lupini. Ma ne abbiamo bisogno per vivere.

La nostra bella biblioteca deve fare i conti con la fatica di essere scagliati ogni mattina in un mondo che a volte pare il risultato non di un sogno divino ma dell’incubo di un fauno che ha appena ucciso le ninfe e le ha fatte a pezzi con il coltello.

Quel mondo, quel mondo che ti ruba le ore, declina le giornate programmando il quotidiano furto della tua libertà, è anche l’arena in cui scopri te stesso.

Il viaggio, qualunque viaggio, non lo si legge. Lo si fa.

E allora se da un lato hai perduto la cuccia ovattata in cui l’anima si rannicchia sognando di fare il grande salto in cerca del suo respiro latteo, stellato, come i sentieri delle stelle notturne, dall’altro lato senti anche che la tua crescita si misura attraverso la sfida dell’impatto del mondo sulla tua pelle. Oltre la tua pelle.

Il libro è un fedele, taciturno compagno. Non usiamolo per schivare la vita che per sua stessa natura è fatta di relazione con l’altro. A volte è più  facile amare un albero, o un gatto, piuttosto dell’uomo.

Così come è più facile consegnarsi all’icona di un "io lettore" che cercare di verificare con la bilancia della giustizia quanto ciò che leggiamo fa parte di noi o rimane un coltissimo, delizioso corredo mentale.

Ci vuole una spada, nel mondo. I tuoi compagni di carta e parole sono lì, ma l’esercito sei tu stesso, così come sei, in fondo, anche il nemico.

Troppo spesso i buoni lettori usano il libro non come spada ma come scudo, come difesa, una pelle per coprire ferite tremanti che vengono avvolte nella carta, suturate dall’inchiostro delle parole.

In quei momenti, la sera, quando spegni la luce sul mondo senza aver letto una sola pagina del libro che hai accanto al divano, pensi che si tratta semplicemente di un altro tempo che non coincide più con gli amori sfrenati della tua adolescenza, neanche quelli rilegati o cuciti a filo refe.

Ora è il tempo di fare i conti con le asperità di un mondo fracassone e selvaggio, d’accordo. Ma che importa?

Solo così capisci che ci sono un solo libro, un solo lettore. E nessun libro, nessun lettore.