Quando il bambino era bambino
aveva un vortice fra i capelli
e non faceva facce da fotografo
Inizia così un celebre film di Wim Wenders, regista magico, raffinato, capace di far vibrare uomini e cose (pensiamo, oltre che al Cielo sopra Berlino, anche a Lisbon Story o ad Alice nelle città).
Questa filastrocca mi ha sempre affascinato, fin da quando la sentii, nel film, la prima volta.
E’ semplicissima eppure così acuminata, precisa, perfetta.
Quando è che ognuno di noi ha pettinato il suo "vortice fra i capelli"?
Quando ha smesso di essere spontaneo per fare "le facce da fotografo"?
Qual è l’istante in cui l’immagine pubblica acquista valenza, risonanza, comprimendo i sogni sbracati del bambino che pascola nel mondo masticando l’erba dei sogni?
Le facce da fotografo sostituiscono le smorfie da babbuino che hanno tutti i bambini. Purtroppo, l’anima, in questo caso, si nasconde.
Lo disse anche un vecchio a Tiziano Terzani, durante uno dei suoi viaggi infiniti. Non voleva essere fotografato perché la fotografia gli avrebbe rubato l’anima.
E invece oggi siamo tutti lì, pronti a sorridere, a fare "cheese" con tutte le facce da fotografo che il nostro repertorio riesce a tirar fuori.
Mi viene in mente anche il piccolo Useppe, l’indimenticato protagonista de La Storia, di Elsa Morante.
Useppe che affronta la guerra e i tedeschi con le sue manine piene di affetto e di trepidazione, con la sua malattia e il suo essere "strambo" che conquistava tutti, lettori compresi.
Se è vero che i bambini "conservano l’odore degli angeli", dovremmo forse imparare a farci piccoli piccoli per sbirciare nel loro mondo ritrovando quel vortice nei capelli.
E smettendo le nostre orribili, ridicole facce da fotografo.