Che differenza c’è tra un bambino (a cinque mesi per me i bambini sono bambini, non feti) sottoposto ad aborto terapeutico perché down, o perché seriamente malformato e dunque costretto a una vita di tubi, respiratori, limitazioni, e un uomo che chiede di morire perché stanco di vivere attaccato alle macchine?
Non sono contraria all’aborto, così come non sono contraria all’eutanasia.
Ma sono sempre incerta, perplessa.
Non ho risposte, né ricette. Ho sempre detestato le ricette, come le marche.
Però sono spietatamente, forsennatamente attaccata alla domanda.
Già, come il Neo di Matrix. Ciò che conta è la domanda.
Ma lo avevano detto molti millenni prima, che era questa la cosa che contava di più. Lo avevano detto gli antichi. Lo avevano perfino scritto all’ingresso del tempio di Apollo, a Delfi. Nosce te ipsum.
Sì, difficilissimo. E come mi conosco? Con la domanda. Anzi, con le domande.
Quelle con cui ci svegliamo al mattino. Quelle che versiamo insieme allo zucchero nel nostro caffè.
Quelle che ci rincorrono durante il giorno, che sgualciscono il momento soave di un intervallo, che graffiano il sorriso, che maturano negli spazi acerbi del nostro inquieto, caotico, irrevocabile divenire.
Domande che ci braccano fiaccando le certezze esposte fresche fresche, come panni stesi al sole, e che sparano il letame nel profumo di bucato.
Sono compagne quotidiane, che invecchiano come un buon vino insieme a noi, centrifugando i nostri pensieri in modo da stanare sempre ogni moto immobile, ogni laghetto mentale sul quale tentiamo di riposare invano certezze improvvisamente sonnambule.
Non hanno famiglia, le domande. Almeno quelle vere, quelle insidiose, nemiche delle superfici, amanti insaziabili dei sotterranei e dei labirinti nei quali rischiamo l’incontro con Ade.
Non hanno famiglia perché, se hanno coraggio, sono orfane di risposte assolute.
Sono queste le domande che ama la Sfinge, queste, quelle accolte da Apollo nel suo Tempio.
Conoscere sè stessi significa conoscere il mondo intero. Ecco perché non sappiamo mai nulla, nè di noi stessi nè di ciò che accade fuori.
Possiamo solo darci risposte. Risposte che nella loro onestà chiedono di poter essere modificate, rivisitate, osservate da infinite sfaccettature, come se fossimo davanti all’Aleph borgesiano.
Il tremore dell’uomo che cammina chiedendosi sempre se la sua risposta non sia un castello immaginario costruito per tacere l’angoscia di un dubbio, frutto di una Morgana ingannevole che addormenta la coscienza, la fa prigioniera, diventa un tarlo costante, ossessivo, che si mangia i giorni scavando quel tunnel in cui precipitano le risposte assolute.
Ogni uomo, in fondo, sa anche che le risposte più autentiche (ma sempre sottoposte al gioco che in futuro può cambiare il numero del dado lanciato) sono quelle in cui è sottoposto al crogiuolo dell’esperienza.
Da quell’attrito nasce la scintilla della nostra risposta reale, non presunta.
Sono contraria alla pena di morte? Benissimo, lo sono, credo che in un paese civile non si debba più usare la legge del taglione che ancora oggi ci insegue, a varie latitudini e longitudini.
Ma se ammazzano mio figlio, che faccio? Se lo violentanto, lo pestano, lo lasciano in agonia per giorni, e notti, e poi ancora giorni, sono davvero certa che la mia risposta sia ancora valida?
Sono certa di non squarciarmi dentro, divisa tra l’umana vendetta e la volontà di essere giusta?
Per una domanda, in realtà, esistono una, cento, mille risposte. Ma è quella affiorata nel momento in cui faccio esperienza diretta con una situazione che corrisponde davvero al mio essere. E non a ciò che penso di essere.
Ecco, ecco perché non so che dire davanti agli aborti, terapeutici o meno. Non so che dire paragonandoli a un’altra interruzione di vita, invece negata.
Perché un’interruzione sì? Perché l’altra no, non è concessa?
E di ognuna di queste risposte diverse, cosa dire? Cosa pensare? Sono certa che il mio atteggiamento non sia disposto a cambiare radicalmente se solo venissi toccata, anche solo appena sfiorata, in prima persona?
Questa è solo una delle mille, cento domande che ci facciamo ogni giorno. Che si fanno, almeno, quelli di noi che provano a interrogarsi sul destino delle cose del mondo, o dei mondi. Che poi è anche il nostro stesso destino. Perché forse fra "dentro" e "fuori" non c’è distinzione, come qualcuno ha provato a insegnarci.
Ci stiamo infilati con tutte le scarpe, in queste domande. Ogni moto dell’anima, ogni fatto che come un’onda appare, spumeggia e muore, scivola via da ogni risacca e scorre insieme all’oceano per trovare il giusto varco del tempio di Apollo. Per lambire le zampe della Sfinge che coagula ogni domanda possibile in una sola domanda, per poi far scomparire anche quella.
Sfiorare il giardino di risposta per poi trovare l’antro di un nuovo quesito, un nuovo dubbio che mina la risposta trovata fa di noi, forse, uomini e donne che cercano davvero.
Non sono moltissimi, forse. Ma ci sono. Eccome se ci sono.
E quando si incontrano, si riconoscono. Per fortuna si riconoscono.