Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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L’ULTIMO METRO’

 

 

 

 

 

 

L’ultimo metro, per Vanessa, si è concluso con un viaggio sottoterra. Lei non è Catherine Deneuve, non sta girando un film di Truffaut.

 Vanessa non è tornata a casa, dopo quella corsa.

E i giornali sprecano fiumi di inchiostro, fra retorica e istigazione. Esasperazioni, strumentalizzazioni, speculazioni. Un’occasione ghiotta, da ghermire come falchi su una preda.

 

Ci sono, in fila indiana, gli spettri delle nostre paure: il terrore dell’altro, del diverso da noi che all’improvviso irrompe nella nostra vita, scardinandola; l’insofferenza crescente in cui ogni moto, ogni sussulto rischia oggi di divampare in una lite fatale; lo straniero fosco che minaccia le nostre quiete giornali civili, di bravi occidentali.

Tanta carne al fuoco. Troppa. Il bruciato non tarda ad arrivare. E lo fa anche in modi meno strillati di quelli che hanno occupato la cronaca nazionale dal momento in cui Vanessa ha ricevuto il colpo mortale alle polemiche post-sepoltura.

Nelle pagine romane di Repubblica, Aurelio Picca firma oggi un articolo inoffensivo quanto inutile.

 

 

Il titolo:

 

 

Ma nei gironi del metrò il vigilante è un miraggio

 

Per fare questo giro in metropolitana mi sono portato appresso R.P. che è un vecchio signore al quale qualche anno fa, sul trapasso della lira con l’euro, proprio sulla metro gli fecero fuori trecento euro e settecentomila lire che custodiva nella tasca dei pantaloni”.

Il giornalista, che a giudicare dall’attacco del pezzo sembra firmare un racconto dal fronte, distribuisce in mezza pagina la sua escursione nel tubo sotterraneo della capitale. Anagnina, Vittorio Emanuele, Piramide…

Una cronachetta  inoffensiva quanto inutile.

Sì, perché non basta una gita di poche ore per infierire sull’assenza dei vigilanti intensificando la tinta già fosca delle nostre ombre. La metropolitana è un luogo che va sorvegliato, ma non è Tel Aviv.

Non li ha incontrati. Sarà stato sfigato.

Io vivo a Roma e prendo la metropolitana solo quando il mio scooter va in panne,  quando piove o quando torno da un viaggio, scendo dal treno e mi imbuco nella stazione sotterranea. Eppure, malgrado le mie scarse avventure nel ventre della capitale,  ho incrociato spesso i vigilanti. Spesso, dico.

Sulle scale, vicino agli ingressi, in prossimità dei treni in arrivo o in partenza.

Il giornalista Aurelio Picca nella sua perlustrazione guidata non ne ha intercettato nessuno.

Sarà per quella strana legge di Murphy?

Sarà perché quando cerchiamo ostinatamente qualcosa, per qualche ordine sottile dell’universo questa cosa scompare?

Fatto è che dei vigilanti non trova traccia.

“Allora decido di scendere dal vagone e controllare se almeno qui passeggia un vigilante: niente, non c’ è anima viva. Vedo solo una scala mobile che non finisce più. MI sembra un agguato.”. Aurelio, Aurelio non preoccuparti. Le ragazze con l’ombrellaccio sono state prese. E saranno giustamente punite.

“Il display avverte: attesa di 4 minuti. E’inevitabile pensare: in quattro minuti può succedere di tutto”. Via, non esageriamo. Sappiamo tutti che la vita, in città, è sempre una guerra. Ma non ci diamo la tua importanza, non ostentiamo un tono sussiegoso da reporter al fronte. Ci infiliamo l’elmetto ogni mattina, combattiamo, ci difendiamo, lo appoggiamo sul comodino, la sera, prima di distenderci esausti.

E, soprattutto, forse aspettiamo un attimo prima di sparare sentenze sulla situazione delle forze dell’ordine nella metropolitana.

 

 Intendo dire che chi prende la metropolitana a Roma sa che comunque i vigilanti ci sono. Non saranno abbastanza, forse. Ma ci sono.  Lui finalmente ne vede due. Stanno fermi vicino a un’uscita. Purtroppo non sono onnipotenti, i vigilanti.  Le disgrazie accadono perché arrivati al punto in cui siamo ci vorrebbe un gorilla per ognuno di noi.

Infatti il problema sta nel progressivo imbarbarimento dei nostri costumi, nella violenza con cui aggrediamo, nella vigliaccheria con cui fuggiamo.

Tuttavia dispiace anche vedere la superficialità di alcuni giornalisti che sparano sentenze su situazioni che conosco superficialmente, trasformando un punto nero in un bubbone.

L’inchiesta è un’altra. Quella vera, almeno.

Invece, come spesso accade, ogni evento drammatico diventa il pretesto per scorribande a caccia della famosa “notizia” (in questo caso l’assenza di vigilanti).

Meglio stare un po’ zitti, forse. E riempire la pagina con considerazioni più acute, interessanti. O se un’inchiesta deve essere, che sia. A puntate. Non a caso nel mucchio, così, ndo cojo cojo, alla carlona.

 

In più, non è stata fatta nessuna domanda ai pendolari. Almeno nell’articolo non lo racconta. Forse loro sono un tantinello più informati di chi ha fatto un solo “giro in giostra” e poi è sceso. Il giornalismo fa domande alla gente. Da sempre. O no?