Voglio imparare il ricordo
senza il rammarico
ammainando i lutti
ad uno ad uno
senza fretta.
E per il varo di una nuova esistenza
cercherò fondi di serenità
proprio qui
in questa stanza che non mi hanno insegnato
Ma se mi arrendo
posso ancora esaudire quella carezza
in cui ripara ogni struggimento
Carezza ancora sconosciuta
non ritrovata.
Eppure è questo, adesso, l’istante preciso
per separare i limiti dalle possibilità
ciò che sembrava da ciò che accadeva
il torto dall’espiazione
il nido di passero dal covo della tigre
la sabbia incerta dalle geometrie del deserto
Adesso, l’occasione di evadere
senza chiudere gli occhi
il dolore che estingue l’attimo breve
di giorni allenati senza convinzione
Se ci riesco, ora, in questa rara
penombra di consapevolezza
potrò andare fra il grano e la neve
con i soliti vestiti addosso
Ma le mie mani
tutte le mie mani
non esiteranno più
davanti ai disegni
che questa stanza mi insegna.
(Aurora Semente – Dove tace il tempo)
Lo sapeva bene, Virgina Woolf. Conosceva l’importanza di una stanza tutta per sè.
Specialmente per una donna.
È in quella stanza che si scrive, si pensa, si dipinge, si piange. Ci si stiracchia ben bene nel mattino fresco, lavando l’anima e asciugandola al vento che soffia dalle finestre. Si beve una tazza di tè, poi si riprende a lavorare. Lavorare su cosa? Sul giardino interiore.
E il giardino di una donna è faccenda complessa. Per l’uomo si tratta di aiuole potate, esposte alla giusta inclinazione del sole. Ma per lei è diverso. I suoi giardini sono selvatici, sanno di muschio, di ombra che filtra la luce.
A prima vista sembrerebbe il contrario, eppure non è così. Malgrado secoli di culti solari – e di irregimentazione del "secondo sesso", come scriveva Simone De Beauvoir – il femminino vive nel sottobosco. Inquieto, struggente, ferito da una Luna palpitante che allo stesso tempo è viaggio e zavorra.
Scarmigliata, a piedi scalzi, la donna del sottosuolo nasconde i segreti delle pietre preziose.
Ma per trovarle deve avere una stanza tutta per sè. Dove creare ma anche liberare le ombre, sfogarle, domarle.
Le ferite devono essere suturate affinché la donna trovi la strada per collegare i suoi boschi con la superficie solare.
Ci vogliono una stanza, un divano, un tavolo.
E alcuni libri per incendiarsi davanti alle giuste parole.
E matite per colorare i fogli del nostro passato.
E musica per danzare.
E una torcia per far luce nell’ombra.
In quell’ombra, la penetrazione coraggiosa dei territori sconosciuti, remoti, smette di farla essere clandestina a sé stessa.
Finalmente si torna a casa. Il sentiero si illumina di piccole luci che brillano nella notte, costeggiano la strada sassosa che riconduce a casa.
Lì, in quella stanza, i misteri del cuore fioriscono.
Sbocciano come fiori candidi inanellati da fumi d’incenso.
Prima però ci sono stati un ritrovamento e una sepoltura.
Seppellire i morti, ammainare i lutti non è mai facile. Ma è da lì che si parte.
Non esiste l’altrove senza l’adesso, nè il rifugio senza la memoria.
Nella stanza ci si cala dal pozzo o si usa la scala per infilare un dito nel cielo.
Non c’è differenza in quanto non si sale senza prima essere scesi.
La discesa della donna avviene nella sua stanza (che può essere anche all’aperto, senza finestre né porte), così come la risalita con le mani piene di doni preziosi.
Questa donna che ha imparato a usare la stanza non potrà più rimanere preda di case altrui. Saprà sempre orientarsi, anche nello sconforto.
Se la tregua di un temporale traccia un arcobaleno nel cielo, allo stesso modo le mani di colei che ha scavato il giardino che sta nella stanza disegneranno bagliori di fuoco che accenderanno ogni stella.
E per ogni stella, sulla terra ci sarà una stanza. Una stanza tutta per lei.