Mi ritrovai così, nella stanza, a inseguire la corsa folle di quel ricordo che si perdeva nelle giornate imprecise della mia infanzia. Stavo lì, rannicchiata sulla bambina che un tempo ero stata. Ma le mie mani non sfioravano le sue piccole mani. Rischiavo solo di schiacciarla sotto il mio peso mentre la stanza diventava una traiettoria che terminava sulla soglia di un dolore mai dimenticato. Ma qual era quel dolore? Non lo ricordavo eppure ne sentivo l’odore. Dolce. Un ricordo di talco e di avena, di pelle di bimbo profumata dagli angeli. «Che strano – pensai – come può una sofferenza trattenere un sapore dolce?». Eppure era proprio così. E all’improvviso capii. Capii che le sofferenze di un bimbo conservano sempre l’odore del cielo dal quale proviene. E’ questa la profanazione più grande, questa sofferenza che entrando nel tempio immacolato dell’infanzia la stupra, la rivolta, ne fa incubo e nebbia ma non riesce ad allontanare il ricordo del cielo. Si vive così sull’orlo di due mondi, cuciti intorno a parole che ancora non sappiamo dire, con la testolina all’insù a cercare quelle galassie in cui galleggiavamo. Anch’io avevo vissuto la mia infanzia così. I giorni prematuri di quel dolore non avevano neanche un anno di vita. Mia madre, il porto di ogni sicurezza, la radice delle necessità, si curvava posando le mani su quel ventre improvvisamente rigonfio di nuova vita mentre io mi disidratavo, assetata di lei, di quella fonte che all’improvviso versava l’acqua della preziosa attenzione sul nuovo seme depositato nel suo vaso di carne e di terra umida.
Sentii di nuovo quel dolore acuto, seppellito da anni di sgargianti impalcature mentali, di corazze intellettive a proteggere quell’antico dolore.
E invece era lì, intatto. Fragile come un uccellino caduto dal nido. In tutti quegli anni non ero mai riuscita a scaldarlo fra le mie mani, a rimetterlo nel nido dal quale era stato gettato. Madre albero di vita e di morte. I giorni dell’assenza erano i giorni dell’attesa di un nuovo figlio imprevisto, erano i giorni delle angosce per un marito latitante che si consumava fra il bar e le donne. E io stavo lì, piccolo uccellino tremante, caduta per sempre da nido.
Quel dolore antico tornava squarciando l’illusione del tempo, gettandomi trent’anni indietro. La tenda si era ormai sollevata, le lacrime premevano sulla superficie. Mi sorprese la diversità di quel pianto che sembrava arrivare dal primo giorno del tempo, del mio tempo, per radicarsi nelle viscere, nel cuore, nella testa. Nella pelle, sotto la pelle. Oltre la pelle. Piangevo tutto il mio dolore di bambina muta finalmente libera di gridare. Piangevo così forte che temevo mi si spezzassero le ossa, frantumando l’unico appiglio stabile con la materia nel bel mezzo di quella tempesta senza tempo, fatta di una storia emotiva, di una storia che fu prima ancora che le parole fossero.
(Aurora Semente – Dove tace il tempo)
Ci sono diversi tipi di pianto. C’è il pianto isterico, nevrotico, fatto di tumulti e scossoni. C’è il pianto stizzito, legato a un problema che si fa nodo da sciogliere, da lavare via con le lacrime. C’è il pianto in punta di ciglia, che accompagna emozioni che non abbiamo il coraggio di trascinare fuori. E poi c’è il pianto terribile che tutti dobbiamo sperimentare, quello del lutto. E c’è il pianto amoroso dell’amante tradito, pianto febbricitante, arso, privo di attesa e di speranza.
Ci sono tante lacrime, e tanti pianti. Ma c’è un pianto particolare, antico, che irrompe improvviso e spezza i confini, lapidando ogni resistenza possibile. In quel pianto – che accade raramente e che per questo diventa momento prezioso, reliquia di un contatto particolare da conservare con amore nella memoria – il nostro Sè preme sui confini dell’Io appiccando l’incendio delle lacrime. Incendio doloso. Incendio doloroso. Incendio necessario.
Queste lacrime sono più copiose delle altre perchè hanno bussato a lungo sulla prota della coscienza. Nascono dalla profondità del ventre e a lei ritornano, come fa l’acqua tra la terra e il cielo. Ma in mezzo si innalza l’arcobaleno di una speranza. Perché non c’è conoscenza senza dolore. Mai.