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Noi non sappiamo nemmeno dove sia ora ciò che è vivo, e che cosa sia, come si chiami. Lasciateci soli, senza libri, e ci confonderemo subito, ci smarriremo: non sapremo dove far capo, a cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare. Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostro corpo e sangue; ce ne vergognamo, lo consideriamo un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali. Siamo dei nati-morti, ed è già un pezzo che non nasciamo più neppure da padri vivi, e questo ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il mezzo di nascere in qualche modo da un’idea. Ma basta, non voglio più scrivere "dal sottosuolo"…
(Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)
Qualche giorno fa, con la persona che mi è più cara al mondo, sono stata a visitare le grotte di Collepardo.
Era la prima volta che entravo in una grotta. Sono rimasta stordita, affascinata. Le rocce annerite su cui gocciolava l’acqua, insistente, come una memoria scomoda, mi parlavano con un linguaggio muto fatto di echi sommersi, di sospiri trattenuti, di segreti di pietra e di fuoco.
L’antro buio, le stradine illuminate da piccole luci artificiali costeggiate dai pilastri rocciosi su cui sembravano issati occhi umani, la volta fuliggionosa il cui silenzio immemore era interrotto solo dalla presenza dei pipistrelli (udibili ma non visibili, unica forma di vita in quel luogo di ombra e di terra) formavano un paesaggio spettrale e allo stesso tenpo accogliente.
Qui, tanti anni fa, quando eravamo ancora vicini alle stelle da cui eravamo caduti, avevamo celebrato i riti ctoni della Grande Madre, la Terra possente che ci nutre e contiene.
Qui avevamo vissuto, lontani dalla ferita del sole.
Qui avevamo ascoltato il cuore della terra, il tamburo che batte al suono dell’acqua che cade sulla pietra trasformandola, corrodendola, donandole nuova forma.
Ebbene, quel cuore stava suonando per me. Potevo sentirne il battito quasi impercettibile, come un soffio di brezza.
Camminavo in quel sottosuolo ignoto che sembrava conoscere ogni mio pensiero remoto, ogni scatto dell’anima, ogni segreto.
Un paesaggio magico, notturno, evocatore dei crocicchi nei quali l’antico viandante incontrava Ecate.
Accarezzavo le rocce seguendone con il dito le forme singolari, figlie di un’umidità senza sole, quel sole assente che qui non penetra mai per ferire lo spazio con la sua luce.
Ho pensato a quanto somigliavano, quelle grotte, ai sotterranei del nostro inconscio, luogo di dimenticati sepolcri e di notturne terre inesplorate.
Come una grotta è impermeabile alla luce solare della quale neppure sospetta l’esistenza, così l’inconscio non conosce la superficie rettilinea e razionale del nostro pensiero.
Non a caso gli antichi affidavano al Sole le valenze del pensiero razionale, cosciente, riservando alla notte e alla Luna i misteri e i pericoli della magia, delle ombre remote in cui l’uomo si perde.
"Portare alla luce" significa infatti consegnare alla coscienza le nostre cantine uggiose, ingombre di irrazionali tremori, di fantasmi sepolti, di angosce che erano prima che la notte fosse, prima del tempo, di ogni nostro tempo.
Dove il sole non batte cresce il muschio delle nostre paure. Eppure allo stesso tempo è lì che si celano gli arcani dell’anima, è lì che può brillare il nostro sole di mezzanotte.
Il furore ctonio può essere anche violento, come Ade che rapisce Persefone trascinandola sotto la superficie terrestre (ma se non l’avesse rapita Demetra non l’avrebbe cercata, e non sarebbero nati i Misteri Eleusini). Senza la protezione del sole i fantasmi sgusciano via dalle rocce affollando le nostre stanze, riempendole con il magma incandescente del non conosciuto, orrore e terrore di ognuno, perfino di chi si professa libero, di chi anela al pionierismo dell’anima.
Le nostre grotte sono accoglienti, ma si tratta un’accoglienza diversa, riservata solo all’avventore che avanza con la lanterna del coraggio per illuminare la notte oscura dell’ignoranza.
Conoscere sé stessi vuol dire percorrere queste grotte, piene di incubi, scheletri, mostri.
Il tempo del sottosuolo non è quello della vita sulla superficie, scandita dalle lancette di un orologio che costringono l’uomo nell’illusione di un rettilineo procedere, di un prima e di un dopo.
Qui, nel sottosuolo, tutto è. Non sarà, nè mai fu. È. Adesso, ora, qui. Senza presente o passato.
La meridiana solare non segna nessun procedere nella terra delle ombre che avvolgono ogni cosa nell’immobilità di un tempo non tempo, mai scalfito da una successione.
Tempo di sospensione, di sogno, di incubo. Tempo di conoscenza senza coscienza.
Mentre camminavo in mezzo alle grotte pensavo a quel ventre pietroso, culla occulta di ogni nascere e di ogni morire, ragione dell’assenza del sole, matrice di nebbie che avvolgono l’umano destino e allo stesso tempo forbice che taglia il velo lanuginoso dietro il quale si nasconde ogni perché.
La Madre Terra è oscura, misteriosa. Danza una danza immobile.
La sua veste è di tenebre, di abisso ogni suo sguardo.
Eppure mi seduce come un’amante scomodo che aggroviglierà il nostro futuro e che tuttavia non riusciamo a schivare.
Come la Iside dei Tarocchi, lei tiene in mano le chiavi della mia conoscenza. Ma si soffoca, quaggiù, senza luce.
Niente rumori familiari. Nè alberi, nuvole e piante. Solo roccia, solo forme a volte diaboliche, solo gocce d’acqua che cadono schiantando al suolo ogni pensiero.
Ecco sì, respiro con lei. Quaggiù, in queste grotte, la terra mi racconta dei miei sottosuoli.
Quanti pipistrelli non ho ancora sentito volare quel volo strano fatto di cerchi, come un sasso lanciato nell’acqua; quanti volti di pietra non ho mai visitato (forse per timore di fare la fine della moglie di Lot, trasformata in una statua di sale); quanti scantinati ho lasciato pieni di memorie scomode.
Percorrere quella grotta è stato un po’ come trovarmi nella regione in cui il pensiero di ferma, in cui la notte delle emozioni cala il mantello sul governo dell’Io.
Sensazioni strane, fatte di stupore e sospetto.
Chissà, forse è per questo che a un certo punto qualcosa premeva sul petto, costringendomi a cercare immediatamente l’uscita, come fossi un pesce tirato fuori dall’acqua.
Ma quando ho raggiunto l’uscita, la luce del sole non mi ha promesso conforto. Ho invece avuto la sensazione di aver perso qualcosa. Vedevo di nuovo le nuvole, i colori, le forme. Sentivo gli uccellini gioire della giornata primaverile. Tutto era di nuovo nitore, perimetro, consistenza. Ma mancava qualcosa.
Mancava la magia della profondità. La notte del nostro soggiorno terreno, di cui la grotta è simbolo e segno, ci invita al mistero di un altrove remoto in cui si cerca l’origine.
Forse, laggiù nella grotta, ho avuto paura dei miei mostri, ho temuto le contraddizioni, gli smottamenti delle certezze.
Eppure in superficie il sole sembrava quasi rapire la forma di conoscenza maturata nell’ombra.
Capii, in quel momento, perché Ade aveva rapito Persefone. E perché Demetra aveva così celebrato, alla fine, i misteri a Eleusi.
Solo che non ero ancora pronta. Non ancora.