La lettura è leggerezza. Anche quando è profonda. Somiglia un poco a quella "gravità senza peso" di cui parlava Calvino.
Essere buoni lettori è difficile, richiede impegno, attenzione, misura. Sospesa fra le parole, l’anima volta, poi plana sui personaggi, li immagina, li veste, mette loro addosso occhi e capelli. Parte di nuovo, si innalza in cielo per seguire le volute di pensieri che si librano in alto, a galla su una realtà invisibile fatta di sensazioni, parole non dette, tremori.
Ma è dopo, e veramente dopo, che cogliamo appieno il fiore della lettura. E’ quando, anni più tardi, la memoria incrocia una frase, una pagina; quando annusa l’odore di un personaggio, quando respira il messaggio sublime di qualche concetto che ha penetrato la pelle annidandosi dentro, in qualche luogo della coscienza.
Il buon lettore non dimentica mai nessun libro e allo stesso tempo li dimentica tutti.
Diventano "suoi" ma hanno bisogno di essere fecondati, come polline in cerca di fiori.
Li fecondiamo, quei libri, con l’elaborazione e la riflessione. Troppo spesso, invece, rimangono aridi esercizi di erudizione oppure, a seconda del tema, vacanzieri passaggi in giorni che tentano di evadere la noia.
I libri, che siano saggi o romanzi, hanno una vita propria solo se incendiano il cuore del lettore (il cuore, non la testa). Troppo spesso, invece, vengono usati come soldatini schierati sul campo presuntuoso dell’intelletto, che deve "mostrare" la sua inviolabilità culturale.
Ma loro, i dispettosi, fanno finta di piegarsi e invece si rifugiano più in là, ritirando dalle parole la linfa vitale. E le parole morte non servono a nessuno.
Le parole morte sono il corteo funebre che invisibile scorre accanto a ogni testa che le ha separate dal cuore.