Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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I NOSTRI MARI D’INVERNO

 

Sono nata in una cittadina sul mare. L’ho sempre visto dal terrazzo della casa in cui abitavo, disteso oltre i vecchi tetti delle case, oltre le costruzioni più nuove, violenza e vergogna di questa modernità a volte così oscena, l’ho visto adagiato sull’orizzonte come una dea nel suo Olimpo, o una ninfa in un sacro bosco.

Quel lembo di mare che confina con il cielo è  sempre  stato lì. Era lì nei giorni arruffati dell’infanzia, in quelli ribelli dell’adolescenza, quando il "no" tesse ogni parola. Io cambiavo, crescevo, e lui rimaneva lì, testimone muto delle mie migrazioni e dei miei rimpatri.

Anche adesso, in questa mattina precoce nella casa dei miei genitori, mentre il computer riflette il primo sole che abbaglia le nuvole chiedendo loro lo spazio, e queste si ritraggono, come intimorite, in attesa di veder spuntare tutti i raggi, simili a tante manine tese verso la terra che ancora dorme rannicchiata nei suoi sogni domenicali; anche adesso, dicevo, il mare è laggiù, mi accompagna, mi assiste, mi guarda. Sempre lo stesso mare. Io invece così cambiata.

Ogni ritorno in questa terra è anche la misura del mio cambiamento. E la misura dei limiti insuperati.

Ma nel suo respiro di sale, laggiù, avverto il gioco delle possibilità.

Lui è sempre stato più ampio di me, mi ha sempre incoraggiato a cercare il mistero del punto esatto in cui il Cielo incontra la Terra. Un non luogo fra due mondi, come il tramonto che separa e unisce il giorno e la notte.

Il mare d’inverno è un luogo magico per ognuno di noi. E’ simbolo e occasione, sogno e libertà.

Alcune leggende antiche dicono che il cielo stellato sopra di noi sia un altro tipo di mare, un oceano cosmico in cui nuotiamo alla fine dei nostri giorni. Un tuffo supremo,  in cui non siamo più, immersi nelle acque di un altrove diverso.

Ho sempre camminato al mare, d’inverno. Ogni occasione di ritorno, qui, diventava una passeggiata fra le sabbie dei tempi in cui ero ancora una piantina giovanissima in cerca di spazio per allungarsi oltre ogni perimetro.

Quante orme serene, sulla sabbia. E quante impronte disperate. Le onde oscillavano come a inseguire i miei umori.

C’era con me un cane, allora. Un pastore tedesco. Il mio pastore tedesco, lasciato poi alla mia famiglia quando iniziarono turbamenti e pellegrinaggi in tutto il pianeta per scoprire, anni dopo, che esattamente lì, in quella sabbia umida di inverni e di lacrime, avevo già incontrato quello che ovunque stavo cercando. Brahma mi camminava avanti, inseguiva i sassi che le tiravo avanzando fra la nebbiolina che qui, da queste parti, cancella i contorni delle cose divertendosi a giocare con le nostre certezze. 

Il mio mare d’inverno, quello vero, fu rappresentato da quella ragazza e quel cane lupo che sfidavano il freddo e camminavano senza sosta sulla battigia, divertendosi a seguire la linea incerta in cui le onde si infrangono sulla riva nella danza del vento.

Quando Brahma morì i miei non me lo dissero. Vivevo già a Roma da anni. Lei ne aveva undici, allora, e un tumore alla mammella che se la mangiava.

Seppi solo dopo, dalla voce tremante di mia madre, che il giorno in cui lei non si alzò più chiamarono il veterinario. Mio padre andò a prenderlo e lo portò a casa nostra. Mia madre, con quel coraggio arcano che solo una donna conosce, prese in braccio Brahma accarezzandola, sussurrandole dolci parole per il suo viaggio, mentre il medico le iniettava lentamente la morte. Mio padre, nascosto dietro un angolo, singhiozzava.

Da allora, da quando non c’è più, ripenso ai miei mari d’inverno con lei. A come, in quella semplicità , eravano felici. Lei con i suoi sassi e le onde che le schizzavano addosso, io con il mare accanto che a ogni mio passo, nella solitudine di quei freddi pomeriggi piovigginosi, cercava parole che pensavo di non saper ascoltare (ma che adesso decifro nella loro pienezza).

Da allora, quando capita, torno a passeggiare sulla sabbia d’inverno. E il mare mi segue, mi guarda, mi chiede. E io rispondo sempre: "Non posso restare, non posso andare. Posso solo cercare di essere". E lui mi risponde con le sue onde che sempre nascono e muoiono, come ogni respiro, come il giorno e la notte. Come ogni cosa che danza fra permanenza e mutamento. E io, accanto a questo mare infinito, sento ancora il sussurro del vento. Lo ascolto. Mi porta lontano, così lontano che mi aggrappo alla barriera dei miei ricordi sapendo che dovrò guardare oltre, nel segreto giardino che fiorisce nel luogo in cui il cielo incontra la terra.