«La caratteristica della buona fiaba, del tipo elevato ovvero completo, è che per quanto terribili siano gli avvenimenti, per quanto spaventose o fantastiche le avventure, essa è in grado di provocare nel bambino o nell’adulto che ascolta, nel momento in cui si verifica il “capovolgimento”, un’interruzione del respiro, un sobbalzo del cuore (…)»
(Tolkien, Albero e Foglia)
Il sobbalzo nel cuore. Non si tratta della meraviglia un po’ tonta dei bambini di Povia, quelli che fanno “oooooh” e che hanno funestato le nostre orecchie un paio di anni fa.
È invece una meraviglia più sapiente, più antica. Ci ricorda un po’ i nani, i vecchi-bambini, dall’anima anziana e il cuore fanciullo, che estraggono cristalli dalla terre interiori, e che hanno bisogno di una Neve Bianca per dare senso e compimento al loro lavoro.
Quel sobbalzo di cui parla Tolkien si gioca all’interno del cuore, liberato dal recinto che tiene prigioniero il moto sottile che evade le porose atmosfere della materia per farsi scintilla pulviscolare, esplodendo in cielo come una stella.
Quel sobbalzo, oggi, diventa sempre più raro. Non c’è più un fuoco intorno al quale radunare la gente per raccontare storie e leggende.
Era lì, sotto un manto stellato, agli occhi di una luna accesa dal sole nascosto, che la danza delle ombre disegnava sui visi i racconti che gli anziani trasmettevano da bocca a orecchio. Da bocca a orecchio, nei secoli, perché i figli dei figli dei figli mantenessero vive quelle storie nate con la prima aurora.
Oggi il fuoco acceso nel bosco indica solo, nel migliore dei casi, un raduno di giovani scout. Nel peggiore, una mano criminale che ha volontariamente appiccato le fiamme.
Lì, intorno a quel fuoco, tanto tempo fa le storie che cominciavano con il “C’era una volta” prendevano forma, vivevano, come Pinocchio, di vita propria, sfuggendo perfino ai loro demiurghi per diventare carne, parola.
Oggi quelle fiabe sono quasi del tutto svanite, conservate attraverso i libri e qualche animazione in cui sfilaccia la facoltà di immaginare. Il libro non svolge la stessa funzione. Lo sapeva bene Platone, che metteva in guardia l’uomo dall’uso della parola scritta che rischiava di incatenare i significati, strozzandoli per la mancanza di aria, di soffio vitale, quel soffio che si tramanda, appunto, quando una bocca trasmette qualcosa a un orecchio. E’ la stessa bocca della mamma che racconta la fiaba al suo bambino.
Se la leggesse, quella fiaba perderebbe parte della sua magica polverina, come accade a Campanellino quando si indebolisce.
Certo, è più facile scorrere il dito sulle parole incantando il bambino che man mano crolla sul letto. Ma non è la stessa cosa.
La voce, il suono, il racconto orale mantengono ancora oggi quello stesso mistero di allora. Non ne siamo più consapevoli, però. Tuttavia è solo così che possiamo accendere ancora le stelle nei cieli interiori.
L’ho scoperto sulla mia pelle, con i miei nipotini.
Come tanti bambini, hanno moltissimi giochi. Lui, un esercito di uomini ragno. Lei, regni interi di bambole e animaletti pelosi. Giocano un po’ fra di loro, il pomeriggio, poi vengono sistemati davanti a un comodo televisore, dove un comodo telecomando errerà in cerca di un comodo cartone animato.
Ma quando apro un libro per leggere loro una fiaba, la festa dei sensi li fa sistemare, tutti eccitati, sulle mie gambe. Lo so, lo so che sono affamati di racconti. Così un giorno ho deciso di inventare le prime storie che mi venivano in mente. C’era la storia della principessina Trilli e del delfino coraggioso, per esempio. O quella di Buck e del suo orso. Raccontavo e vedevo le stelle esplodere nei loro occhi, come galassie pulsanti, affamate di vita. «Ancora, ancora, zia!». Ho dovuto ripeterle per parecchio tempo. Per giorni, mesi interi. A un certo punto avevo dimenticato la successione degli eventi (quando ti inventi di sana pianta una storia, non è detto che te la ricordi per sempre) ma loro no, se l’erano impressa con il marchio a fuoco. Sì, la memoria del fuoco agisce ancora oggi, danza, con le sue fiamme guizzanti, insieme all’oralità di racconti dispersi, che denunciano la vita frastagliata subita nei secoli, fatti prima di libri e poi di immagini animate, di televisori e computer, ma non ancora evasa da questa terra. Non ancora.
I miei racconti non possedevano certo la sapienza e il vigore delle fiabe antiche, ma vivevano la vita magica dell’oralità.
Quando, una sera, ho mostrato le stelle che come strade sterrate disegnavano curve nel cielo, si sono appassionati. Gliele ho narrate, poi ho appoggiato sulla falce lunare le storie della magia e delle fate, ho immaginato per loro mondi lontani e invisibili.
Gli occhioni si sgranavano, avidi di quella conoscenza remota. Volevano ingoiare con le pupille quelle parole, come se avessero due grandi bocche ai confini del naso, due buchi scuri pronti a far propria la materia impalpabile di quei racconti.
Eccola, la magia della fiaba. Viva, ancora oggi, in modi diversi.
Tocca a noi, ricostruire quel fuoco per tutti i bambini di oggi e di domani. Dobbiamo cercare la legna, accomodarci con una coperta intorno alle spalle, soffiare sulla brace svegliando le fiamme sopite.
Perché la tradizione orale non merita di essere seppellita per sempre. Ogni fiaba è rugiada del mattino per tutti i bambini.
I cartoni animati e i film possono in qualche modo aiutare, ma non sono in grado di sostituire l’incanto della fiaba narrata.
Incanto, incantamento, cantore. In questa epoca assediata dalla mancanza di tempo dobbiamo sforzarci per trovare lo spazio necessario al “sobbalzo del cuore”.
La fiaba è una soglia sul nostro cosmo interiore, è porta e chiave, occasione e stupore.
Non diventeremo mai esseri umani completi se non avremo imparato a conoscere il Bene e il Male. Dentro, non fuori di noi. E così se la strega ci spaventa piano piano ne riconosceremo la necessità affinché il Bene si compia. Sapremo che lei siamo noi, così come siamo anche la fata turchina.
Le forze che ci compongono tessono le nostre trame psichiche e quelle spirituali.
L’uomo antico ha usato il mito e la fiaba per farne la bussola della ricerca, l’orientamento che traccia un percorso preciso in cui si passa dall’ignoranza alla conoscenza, di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Anche se non ne siamo consapevoli, oggi usiamo ancora quei simboli traslocandoli al cinema e in televisione. Ma è l’uso cosciente che aiuta a uscire dalla grotta platonica per riconoscere le “vere” figure che crediamo di intercettare.
Le fiabe non sono solo per i bambini. Sono per tutti. Ma se non le abbiamo toccate da piccoli, il recupero nell’età adulta sarà più impegnativo. Mi viene in mente una bellissima leggenda africana, che racconta l’importanza dei bambini come legami celesti. Quando sono piccoli, la tribù deve trattarli benissimo perché altrimenti il bambino, che vive ancora sospeso fra terra e cielo, potrebbe scegliere il cielo. Ogni bambino violato, maltrattato, offeso, non “scenderà” mai nella materia rimanendo come un albero spoglio e privo di linfa.
Ecco, le fiabe sono la linfa che insegna al bambino la vita senza spezzare il filo di Arianna che lo lega ai cieli.
Molte di loro sono andate disperse, però molte altre possono essere ancora conservate e trasmesse.
Soprattutto, va conservata la suggestione di quel racconto da bocca a orecchio che provoca il sobbalzo del cuore.
Perché c’era una volta, sì. Ma c’è. E ci sarà.
Online il nuovo numero di Silmarillon. Un grazie a tutti i blogger che hanno partecipato con il loro contributo.