La casa è una perversione.
(Bruce Chatwin)
Ho sempre amato Bruce Chatwin di un amore tempestoso, così come lo erano le giornate della mia inquieta adolescenza e di quella tardiva saggezza che non voleva affacciarsi sulla soglia della coscienza.
Chatwin era specchio e rimando, per me, dell’errare nel mondo, in cui si componeva la solida differenza che separa per sempre il turista dal viaggiatore.
Per quelli che come me sognavano il viaggio, e non il vago visitare un luogo da cartolina, Chatwin è stato un po’ come un Vangelo: un punto di riferimento assoluto.
Certo, poi si cresce, si mollano alcuni idealismi (e tuttavia che fatica nel lasciare quell’àncora), si capiscono meglio le tensioni irrisolte che, come fu anche nel caso di Chatwin, stimolano ogni atto creativo.
Lui fu un grande viaggiatore, un esploratore di suggestioni ottocentesche che con gli occhi sgranati sul mondo inseguiva ogni latitudine e ogni parallelo.
Ieri mi è capitato di leggere un articolo sul magazine che accompagna Repubblica, D., in cui si parlava delle scoperte scientifiche che confermano l’importanza della corsa, non solo come strumento per il benessere fisico ma addirittura come allenamento della memoria. Chi fa jogging esercita un’attivazione emotiva sull’amigdala, che rende il cervello pronto a catturare ogni stimolo e a ricordarlo.
Correre, camminare.
Mi è tornato in mente Chatwin con le sue appassionate teorie sul nomadismo.
In Anatomia dell’irrequietezza, così come in Che ci faccio qui? e Le Vie dei Canti, racconta di come l’uomo sia nato per essere nomade e non stanziale.
Ha ragione.
In fondo, tutto intorno a noi si muove. Perché l’uomo dovrebbe star fermo?
I pianeti, il sole, la Terra stessa sono in movimento perpetuo.
Chatwin fa un esempio che ho sempre ricordato volentieri nel tempo: quando un bambino piccolo piange, basta prenderlo in braccio e camminare per interrompere le sue lacrime. Allo stesso modo, il leggero oscillare della culla, provocato dal braccio della mamma, stimola nel neonato il sereno abbandonarsi al sonno.
Chatwin ha sempre pensato che i popoli nomadi fossero rimasti vicini all’essenza mentre noi, così civilizzati, così urbani, così pantofolai, avessimo smarrito la nostra direzione più profonda.
Ipotesi affascinanti. Concrete.
“Le mie idee più belle le ho avute camminando”, scrisse una volta.
Anche io, d’estate, quando al mare cammino sulla riva alle otto del mattino, con la sola compagnia dei pescatori di telline che approfittano della bassa marea e delle acque quiete (a quell’ora il mare sembra una tavola lucente nella quale si disegnano le sfumature del sole), sono abbagliata dalla diversità dei pensieri che approdano e sfumano nella mente. È come se il mio movimento li svegliasse, invitandoli a una danza in cui procediamo, io e loro, con passo doppio.
Spesso in queste occasioni lamento l’assenza del mio blocchetto di appunti per fissare ciò che la danza ha generato.
Chatwin forse a volte ha enfatizzato troppo alcune sue teorie. (Ma viveva di enfasi, lui. E di stupori continui). Certamente, però, ha individuato un nodo focale sebbene non sia stato in grado di dargli tutto il rigore scientifico che gli studi richiedono.
A me poco importa delle certificazioni. Sono una che fiuta il mondo intorno affidandosi alla sua percezione, più che ai dati statistici. Ma so che questa ipotesi sul nomadismo è sempre valida.
L’uomo deve muoversi. È lui stesso cielo, pianeta e orbita.
In questo senso, mi sento di fare un augurio a tutti quei camminatori e qui corridori che percorrono questo pianeta in cerca della loro Patagonia segreta.
Il moto è vita. E la vita si nutre di quella mobilità che fa del mondo un luogo di mutamenti.