LE PICCOLE COSE
Il successo professionale ci lusinga, ci seduce, ci attira. Certo, è un bel doping per la personalità. Un ottimo vestito per l’autostima. Come no.
Sono reduce da un glorioso appuntamento con un personaggio importante del settore in cui lavoro.
Eppure….Eppure penso – sarà il Natale – alle cose che contano davvero. E non sono certamente le collezioni di glorie professionali che, sicuro, ci fanno bene, ma in cui troppo spesso, un po’ come Dorian Grey, ci smarriamo a favore di un’apparenza. Il lavoro è importante, per carità. Ma, specie quando si frequentano ambienti di lusso, diventa anche un ostacolo per la ricerca delle piccole cose, invisibili eppure potentissime. Piccole cose che pulsano di vita, bramano un’attesa che non fa notizia ma che diventa sostanza, ardore quieto, gioia dell’attimo.
Sono le faccende piccole piccole, come un sorriso casuale per strada, lo fiorarsi di due mani che si stanno cercando ancora, il coraggio del fiore di gelsomino che sfida il gelo e sta lì, a raccontare come la vita sia piena, sempre e comunque.
Cronache minute, piccole come gli ossicini di un passero. Ma non per questo fragili.
In fondo, corriamo sempre dietro ai “grandi eventi”, sognando successi, traguardi, storie a lieto fine mentre la vita si svolge…accanto. Ci passa vicino, e magari non la notiamo neppure, troppo presi da egoiche divagazioni sul tema. Quale tema? Il nostro Ego, l’Immagine a cui vogliamo assomigliare, la Figura Nostra magnifica e…progressiva.
E così ci accade si correre vicino a lavori, matrimoni, e perfino “imprese” spirituali, senza notare il vento che muove la foglia facendola vibrare di un racconto unico, tutto per noi. Un racconto che è Vita. Semplice, piccola, muta. Frastornata da tanto strillare, tanto inseguire, tanto afferrare. Ogni giorno porta con sé la gioia delle piccole cose, basta saperle guardare.
E troppo spesso, troppo spesso ce ne dimentichiamo.
Qualche giorno fa, la neve romana sollevò il naso di tutti. Ecco, sì, allora dovrebbe “nevicare” ogni giorno. Piccoli fiocchi bianchi sulla nostra miopia, ad accendere di stupore uno sguardo altrimenti distratto.
E se guardiamo indietro, se lo facciamo con onestà, dovremmo riconoscere la potenza di questi piccoli attimi, spesso mancati, che hanno dotato sostanza alla nostra vita. Sostanza e presenza. Non occorre scalare vette, costruire imperi o fare famiglie ristrette o allargate. Basta, a volte, accorgersi. Notare quel poco che c’è, ma c’è sul serio. E in quel “poco” ritroviamo il “tanto” che abbiamo invano cercato. Allora gli occhi si allargano di meraviglia e gratitudine, e l’anima si distende, senza corse e rincorse.
Piccoli momenti strategici che sono legati a persone, piante, animali, momenti del giorno o della notte in cui è sufficiente guardarsi attorno per dilatarsi senza divenire porosi.
Sono questi, gli attimi invisibili, piccoli, che non fanno la Storia ma ne costituiscono la ragione stessa di essere.
Dovremmo solo imparare a esserci, quando ci sono loro.
E allora anche un colore fiammingo nel cielo, il timbro di una voce conosciuta, la giusta alchimia di sapori nel piatto che abbiamo appena cucita diventano “momenti di essere”. Momenti di essere. Non sembrare: essere.
ARIA DI NATALE
Bella questa immagine. Mi fa pensare al Natale dell’infanzia, quando credevo ancora al vecchino che arrivava sulla slitta, quando il mondo era una promessa continua, in cui ogni giorno una stella cometa sarebbe potuta atterrare sul mio destino cingendolo di ori e di luce. Quando i buoni erano buoni e i cattivi rappresentavano solo un’oscura, ignota minaccia. Quando le favole accendevano le luci in ogni stanza mentre insieme alla neve cadevano anche le malinconie, raccolte dai folletti ogni notte e deposte lontano, lontano, lontano.
Come tutti i bambini, avevo un’immagine idealizzata che proiettavo sul mondo.
Poi cresciamo. Amiamo. Soffriamo. Gioiamo. Insomma, facciamo tutto quello che i bravi adulti devono fare.
Ma il Natale fatalmente ci riporta indietro. E ci fa fare i conti con i sogni smarriti, gli adulti invecchiati, l’assenza di folletti a raccattare le disarmonie del cuore.
E ci fa contare anche i nostri tesori. E’ una zona cruciale, il natale. Un punto d’arrivo e di partenza, una bilancia, il ritorno di un appuntamento.
C’è chi lo ama e chi lo detesta. E’ ovvio: lo ama chi sta in compagnia, lo detesta chi vive una obbligata solitudine.
Ma c’è anche l’avversione per il buonismo commerciale, per l’assenza di significati profondi.
A me dà fastidio, sì. Non mi piace il natale alla Bauli. Si può dare di più, si può dare di più, si può dare di più…Ergo si può comprare di più. Beh io non lo compro, il tuo panettone.
Il Natale non è commercio. Eppure quell’intimità, oggi, l’hanno persa anche i bambini. Frastornati dai regali, dal luna park di parenti in festa che decidono di volersi bene “perchè è Natale”, dai geitori scoppiati che si riaccoppiano…
Mia mamma mi racconta dei natali di un tempo. C’era più assenza ma…più presenza.
Tuttavia, a ciascuno il suo. Si vede che a noi tocca questo, di Natale. Il Natale di Bauli.
UN’ALBA DIVERSA
Un anno fulmineo – uno sfarzo – una lacrima
lo svegliarsi un mattino
per scoprire che ciò per cui ci si sveglia,
inala un’alba diversa.
(Emily Dickinson)
Non mi va di scrivere altro perché quando “parla” la sensibilità della Dickinson ogni altra parola sembra un orpello gratuito.
FESTA MOBILE
Succede che anche se vai fuori per lavoro, puoi sempre trovare il modo di vedere una città. Puoi evitare di ridurla a una serie di abbuffate nei ristoranti e dormite in albergo.
A me è successo. E' successo a Parigi.
Organizzata bene la mia fuga dalla Fiera, mollate le persone allo stand, ho raggiunto il centro e…mi sono persa.
Sì. Mi sono persa nelle strade di un novembre parigino, con il suo cielo grigio e piovoso (chi mi conosce sa che amo la pioggia), le sue architetture straordinarie, i bistrot., gli alberi spogli… Mi sono mangiata una crepe alla cioccolata mentre volutamente ignoravo ogni direzione. Sì, perchè se ti dai una meta allora non si assapori bene una città. Devi invece perderti per trovare lei, dimenticare mappe e tappe, lasciarti guidare dallo zingaro che è in te e che sa, conosce la non direzione in cui tutto compare. Così, conosci una città. E Parigi è davvero la Città.
Di notte, le sue luci sfavillanti celebrano esattamente quella "festa mobile" di cui scriveva Hemingway. A confronto, Roma sembra illuminata, nelle sue serate notturne, da lampadine di 40 watt.
Parigi no. Lei illumina le facce e i palazzi, gareggia con le stelle, muove il suo respiro invisibile nei bistrot, si infila nello spazio sacro della verticalità gotica, ascolta le chiacchiere infinite allungate nel tempo sospeso di un bistrot. La notte, a Parigi, brulica di luci e colori. E tutti fuori, sparpagliati nei caffé, a ignorare il freddo coprendolo con le voci, con i sorrisi, con le bevande fumanti. Ripenso a Sartre, a Simone de Beauvoir, a tutti gli intellettuali che dei caffé facevano il mondo. Noi, noi invece abbiamo recluso nei salotti la nostra cultura, l'abbiamo asfissiata con i vezzi del dotto, ne abbiamo fatto oggetto di vanto e non di scambio. Respiro l'aria dei caffé mentre immagino quelle voci lontane che volevano cambiare il mondo, che si interrogavano, parlavano, passavano ore seduti girovagando su tutto, consapevoli che l'intellettuale vero è quello che si sporca le mani, come diceva Pasolini. E che discute, che non fa del suo universo l'unica certezza di vita.
E li rivedo tutti, i miei amori passati. In quelle atmosfere parigine vedo Balzac passare in carrozza, e sento la meraviglia di Proust davanti a una nuvola in corsa. E Flaubert, e Victor Hugo. E tutti, tutti coloro che ho amato sono lì, accanto a me, nella mia passeggiata in cui il giorno diventa notte. Fermenti, sospiri di una città "vera", lontana dal provincialismo che attanaglia le nostre presunte metropoli che, ahimé, della metropoli hanno il caos ma non l'essenza di quell'umore sottile che come un vento qui passa ovunque e allarga i confini.
A noi manca quel respiro internazionale, quella brezza dilatata che soffia sulle cose e che, almeno per me, conta tanto.
E mentre cammino per ore mi accompagna la sensazione di essere a casa. Qui mi sento a casa. Mi riconosco.
E la sensazione culmina nella Sainte Chapelle. Non voglio descriverla perchè le parole sarebbero un gesto superfluo. E'. Semplicemente.
Dico solo che la bellezza mi ha trafitto come una lancia e che ho pianto. E che ho sentito un richiamo antico, che attraversava il tempo.
Un istante, ed era già volato via.
Avrei voluto restare lì per sempre, ma il tempo è tornato, mi ha chiamato, mi ha riportato al lavoro che avevo abbandonato.
Eppure ce l'ho fatta. Ce l'ho fatta a regalarmi un pezzo di libertà. A incontrare, anche se per poco, l'anima di una città che si è impressa nel cuore. Mi sono ricordata di quando, tanti anni fa, ci avevo trascorso la gita di scuola. Ricordi smozzicati che riaffioravano. Come quando davanti a Notre Dame mi ero commossa. Intendiamoci, mi sono commossa anche stavolta, Notre Dame è Notre Dame, per carità. Ma è la sainte Chapelle che mi ha rubato il cuore.
Per sempre.
ROSSO DI SERA AUTUNNO SI SPERA
Poche cose mi piacciono come l'autunno. Sul serio. Molti di noi si immalinconiscono, tardano con la mente al pensiero delle perdute gioie estive. Non io. Forse sto diventando un'anima crepuscolare, ma ai colori aggressivi dell'estate preferisco quelli caldi di un autunno che colora ogni cosa con i suoi rossi meravigliosi, impareggiabili.
Non c'è artista in grado di metterli su tela con la stessa intensità, con gli stessi accostamenti cromatici che, sempre, mi stupiscono.
Guardo le viti che si arrampicano suoi muretti dando nuova vita a quelle pietre, cammino su foglie ammassate come su una nuvola in terra, osservo il cielo che spesso si tinge di azzurri e di grigi che finiscono per compenetrarsi scortati dalle ali degli uccelli in volo. Com'è monotono, il cielo, d'estate. Con quel blu così raramente soccorso dai bagliori lattuginosi di qualche nuvola che lo attraversa. D'autunno, quando non piove, i colori diventano più capricciosi, e quel capriccio mi piace.
Insomma, l'autunno mi regala sospiri di serenità. E sì. forse anche di malinconia. ma una malinconia sana, beata, dolce e tiepida come i primi maglioni di lana.
E' una natura incerta come incerto è il nostro vivere. In ogni foglia che cade vedo il mutamento che preclude a ogni rinnovamento.
Le mie piante, in terrazzo, stanno vivendo questa stagione in modo diverso a seconda della loro peculiare natura. Alcune, come le rose, si svestono completamente, altre invece sfoggiano mescolanze ardite di rossi e di verdi.
Altre ancora resistono, e accettano un sole pallido che si nasconde presto dietro ogni notte.
E io sto bene, in mezzo a loro, a guardare i contrasti del cielo prima che si spenga per accendere la sera.
E guardo lontano, verso le colline.
Penso a paesaggi che mi aspettano in quei viaggi in treno che in questo periodo sono così numerosi.
Le colline e i boschi, feriti dalla ferrovia, mi saluteranno con il loro autunno più bello.
E io, io starò lì a guardare.
IL GIORNO
Nel giorno dei morti, io penso anche ai vivi che stanno morendo…
Non ho voglia di scrivere altro perché questa foto non chiede parole. Chiede solo di guardare, e di pensare.
CARI AMICI SCUSATE LE FORZATE ASSENZE, VI HO SCRITTO QUALCHE RIGA DI RINGRAZIAMENTO NEL VECCHIO POST. MA CI SONO, APPENA POSSO CI SONO, E VI PENSO CON TANTO AFFETTO…
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