L’ODORE DELLA SOLITUDINE
A volte nelle persone avverto l’odore della solitudine. E’ un odore acre, pungente, sospeso intorno e in alto, come una nube. è l’odore di chi non condivide, di chi, anche in mezzo alla gente, non vive sulla pelle o sulla testa ma si ritira in qualche ripostiglio interiore, sconosciuto anche a lui stesso. e questo odore non a caso ricorda un po’ quello dei vecchi, e forse si tratta infatti di una prematura vecchiaia, un precoce avvizzimento del cuore. Ma basterezze farsi raggiungere da una carezza, una carezza vera, per sciogliere quell’odore.
SULL’AMICIZIA
L’amicizia è una cosa seria. Non ama essere messa accanto ai nostri vestiti nell’armadio, per essere tirata fuori quando serve, all’occorrenza. Non le piacciono le situazioni di circostanza, come i complimenti o le condoglianze dovute ma non sentite. Ama mettersi comoda, in pantofole o anche senza, che è pure meglio.
Niente convenevoli, belletti, lusinghe. Quelli vanno bene per il bridge delle anziane signore perbene.
Non è perbene, l’amicizia. Smonta un’idea per farti vedere la realtà che ti stai negando, ti acciuffa per i capelli con violenza prima che tu ti butti nel burrone che tu pensi candito, o magari ti segue passo passo, non interviene ma di sicuro non tace neanche. Può essere perfino aggressiva. Di certo è scomoda.
E poi è spettinata, non si fa la messa in piega.
Non guarda neanche l’ora: quando chi ama ha bisogno, ha bisogno. Si alza e corre.
Non trattarla mai come una stupida damina di compagnia: vuol dire che non hai capito niente.
Se vuoi compagnia, prenditi un cane. Oppure iscriviti a un gruppo sociale su Facebook.
Uscire insieme è facile. Meno facile, invece, stare a casa, malgrado ogni impegno, e rimanere due ore al telefono con la voce come un phon, ad alitare un vento caldo sulle lacrime dell’amico che sta soffrendo.
Un po’ come hanno fatto il bue e l’asinello con Gesù quando era piccino.
In fondo sì, l’amicizia è un termosifone, anche se sa gelarti con la sua franchezza.
Il tradimento si perdona a una passione, ma non a un’amicizia.
L’etica, l’onestà, la libertà sono virtù che lei apprezza molto. Anche la libertà di non esserci, quando è necessario. Ma non sopporta l’egoismo. Come non ama sentirsi usata.
Lei è fatta per amare ed essere amata. Non viene dopo mariti, mogli e famiglie. Gli sta accanto, e a volte li guarda passare nella corrente del tempo. Lei resta.
Sempre che non decida, delusa, di fuggire via, e buttare anche te in quella corrente.
NON LETTERA A BABBO NATALE
Babbo Natale, quand’ero piccola ti scrivevo letterine piene di desideri, e facevo un pacco enorme dove dentro mettevo i miei giochi più belli. Un regalo a Dio, dicevo. E lo appoggiavo fuori, in balcone, sul muretto che fa da ringhiera. A volte il pacco cadeva in strada, altre invece mia madre segretamente lo recuperava e lo nascondeva. Ma io, la mattina, svegliandomi, mi allargavo tutta in un sorriso, che Dio aveva accettato il mio dono. Insomma, una specie di Babbo Natale inverso, che dalla Terra porta i doni in Cielo. I bambini sono così, delizia innocente .Poi si cresce, arrivano gli affanni, le illusioni e le delusioni, la mente ingombra e il cuore si accantuccia in un angolo, dentro noi stessi, al riparo dalle bufere esterne. Così, da grandi vediamo il Natale come l’esaltazione commerciale in cui anche noi fibrilleremo con i nostri regali ricevi/dai. Ma oggi, Babbo Natale, oggi sono cresciuta e non c’è più, in terrazzo, un dono per Dio. E, se devo essere sincera, neanche ti scriverei più una letterina. Perché avrei troppe cose da chiederti, cose importanti, urgenti, che neanche Dio riesce a risolvere e allora come fa, a farlo, un vecchio stanco con la sua fila di renne invecchiate a forza di correre su e giù nei cieli del mondo? Qui abbiamo bisogno di tante cose che, guarda un po’, non sono quelle che ci regaliamo e ti chiediamo. Abbiamo bisogno di smetterla di farci la guerra, di debellare l’indifferenza, l’odio, il razzismo. Abbiamo bisogno di crederci meno isolati l”uno dall’altro, che “nessun uomo è un’isola” come diceva J. Donne. E invece, qui, ci crediamo tutti isolotti. Sì, alla deriva. Abbiamo bisogno di non farci più rimbecillire dalla pubblicità che ci ordina cosa dobbiamo desiderare (è lei la vera complice tua, caro Babbo) e di imparare a desiderare meno. Abbiamo anche bisogno di uscire dalla follia del nostro sistema fatto di Banche e Finanze che vogliono che tu abbia il debito enorme, così secondo loro sopravvivi, e che tu debba consumare consumare consumare per esistere, mentre tutti sappiamo, dalla natura, che il consumo virtuoso non è illimitato. Ci vuole il consumo necessario. Ecco, dobbiamo imparare che significa, di nuovo, la parola “necessario”. E abbiamo bisogno di Terra. Perché oggi la compriamo dai paesi più poveri per abbattere le coltivazioni e fare commercio di mais legato alla Borsa della Malavita (e così anche le energie “bio” finiscono per rubare terra all’alimentazione). La lista è lunga, e io non sono più la stessa bambina che impacchettava doni per Dio. Ma ho nostalgia di quelle sere segrete, chiusa in camera in consultazione con lui, per capire i misteri di un cielo che non finisce mai. Come fa un cielo a non finire mai? L’infinito era vertigine e fascino nella mia testolina di bimba, spingevo il naso più su, più su, sopra le nuvole e poi ancora, ancora e ancora…e quando il vuoto mi spaventava il naso finiva spiaccicato nel ventre di mia madre, con la sua convessità dolce e rassicurante, destinazione finale di ogni ansia e paura. E non funziona più neanche quello. Oggi so che il cielo è infinito, ma l’àncora che era mia madre non mi impedisce più di salpare verso tremori ignoti. E so che tu sei un’invenzione e che sei molto legato alla Coca Cola, che se la bevo una sera mi gonfio come un pallone (forse è per questo che la tua pancia è così grande). E Dio non lo so, credo ci sia qualcosa che ognuno chiama con un nome diverso, ma non appartengo a nessuna religione che mi sento subito stretta e costretta. ma c’è una cosa, da allora, che è rimasta. La fiducia nel mondo invisibile che in qualche modo ci contiene tutti. E se, da bambina, giravo la testa di scatto per vedere finalmente l’angelo custode (che se era alle mie spalle allora se mi giravo di botto gli facevo “tana” no?) e tutti ridevano ridevano delle mie astuzie terrene per rubare un pezzo di Cielo. Oggi non giro più la testa di scatto, non lo cerco più. Ma a volte sento, dentro, un calore ne cuore che mi racconta che, dentro e fuori, c’è molto altro. Ma non ci sei tu, caro Babbo Natale della Coca Cola. E le lettere più belle, sai, sono quelle che scriviamo su un filo di
FORZA GNOCCA?
“Forza gnocca”. Grazie, Berlusconi, a nome di tutte le donne italiane. E ti ringrazio anche per essere stato il “Muso” ispiratore, mio e tuo malgrado, della nascita della Stanza di Virginia dopo l’ennesimo annus horribilis zeppo di Bunga Bunga che mi hai fatto passare. Sai, in Italia non ci sono solo gnocchette e tortelline, ci sono anche un sacco di donne che pensano, raccontano, cercano e – credimi – osano perfino sognare ancora. Difficile, nel Paese che hai fatto a brandelli. Per noi donne, poi, è stato particolarmente faticoso sopportare ogni giorno il tuo maschilismo sempre più gretto (scopare le donne non vuol dire amare le donne, te lo ricordo bene), il tuo fare da vitellone sempre a caccia di sederi e tette da comprare, le tue barzellettine da baretto di quartiere. Sì, certo, mi fai anche pena, costretto a un sogno prezzolato che ti costa case, denaro e… avvocati. Perché le donne le devi pagare. Mi fanno pena anche loro, un po’. E mi fanno rabbia, tanta rabbia, per l’immagine del femminile che diffondono e mantengono viva. Ma, del resto, fanno il mestiere più antico del mondo. E tuttavia, tuttavia queste moderne cortigiane sono ancora più squallide, perché in questo mondo sempre più futile anche i motivi della “prostituzione” (chiamiamola, per favore, con il suo nome) sono spesso sempre più futili. Ci si vende per andare in tv, per fare una particina interdentale in uno di quei filmetti stupidi che rovinano il nostro bel cinema, ci si immola a un vecchio fatiscente come te per un gioiello di Chanel e per una villa. Ma, tu, caro Presidente, hai contribuito, in questi pietosi diciassette anni, a svilirci perchè se fra le lenzuola private puoi fare come ti pare, come Premier sei chiamato a rappresentarci attraverso un’immagine rispettabile. Non mi dilungo, qui, a spiegaredi nuovo le ragioni che altrove i miei colleghi giornalisti hanno spiegato così bene. Ti dico solo che, come donna, mi sento profondamente offesa.
Non siamo tutte come le tue Ruby. Te lo ripeto, in Italia ci sono donne che sanno cosa siano la dignità, il rispetto, il coraggio. Donne che danno ancora peso e valore a termini scippati del loro significato. Donne che tirano avanti fra casa e lavoro, che allevano figli mentre lavorano tutti i santi, santissimi giorni. Donne che leggono, scrivono, vanno al cinema (escludi, per piacere, i fratelli Vanzina, e dammi retta: guardano altro). Che cercano di dare senso e significato ai sentimenti e alle relazioni. Donne che si impegnano. Che cercano una politica più seria, meno arraffona, schifosa e puerile. Donne a cui la lobotomia del denaro facile non interessa se questo significa vendere il loro corpo al “Potere” (che si sarà mai di potente, poi, nel tuo sederino flaccido e nella tua pancetta scaduta? non è triste, pensare che il Potere sia soltanto Denaro?). Sono meno visibili, forse. Ma non per questo meno numerose e importanti delle tue Lolitine. Non finiranno a fare le letterine, e neanche le veline. Non avranno una villa all’Olgiata e neppure una pelliccia di Fendi. Ma saranno sempre fiere, orgogliose. Potranno andare a letto solo con chi amano, pensa che bello. E stare bene anche da sole. Senza chiedere a niente e a nessuno. Queste donne, caro Presidente, sono un esercito silenzioso che invece di urlare e apparire cerca di fare, e cerca ogni giorno di essere una prova vivente del fatto che si può essere diverse da quelle macchiette femminili che da anni un certo carnaio mass mediatico ci propina ventiquattro ore su ventiquattro.
Donne umiliate ogni giorno dagli omuncoli come te, che tra una barzelletta e una palpatina si sentono “maschi”. E che invece sono solo ridicoli. Terribilmente ridicoli.
Cambiare?
Ogni volta che penso al tema del cambiamento vado un po’ in crisi, lo ammetto. Si può cambiare? Possiamo realmente cambiare noi stessi? E se sì, fino a che punto?
Se guardo indietro, trovo sempre la stessa Francesca con il suo carattere passionale impulsivo, poco incline all’ordine e agli ordini, Eppure, eppure qualcosa è cambiato. E nell’accostarmici incontro la malinconia. Non può non essere così. Con gli anni, la prima cosa che cambia (per fortuna) è il dimagrimento di quel senso di onnipotenza che a vent’anni ci vede sul tetto del mondo. Scesi (o rotolati giù) dal tetto vediamo le cose in modo diverso, siamo più fragili ma sicuramente più veri. Ma ciò che cambia davvero è solo il nostro modo di guardare le cose, ed è già un gran cambiamento! Vedere il vecchio con occhi nuovi: che salto.
E invece, certo, vorremmo cambiare ben altro, dentro e fuori. I nostri vizi, le nostre ombre, le nostre paure… Si possono affrontare meglio, ma non se andranno. Noi, non ce ne andremo. La nostra storia, fisica e psichica, respira con noi, ci accompagna. Liberarsene è impossibile. L’unica cosa possibile è accoglierci, così come siamo, e tentare disperatamente di allargare lo sguardo, cercando di spingere un po’ più in là l’orizzonte.
Il resto, è illusione.
Il tempo e il dolore sono maestri, si dice. Vero: ci insegnano i limiti delle cose, la relatività di questo mondo.
Capire questo è un bel cambiamento. Non pretendiamo troppo da noi, ma nemmeno poco.
I BLA BLA DELLA TUTTOLOGIA
Socrate: Io so di non sapere
Non sopporto più la gente che sa. Che sa tutto. Di ogni cosa. Dalla cosmetica alla politica, dall’arte all’entomologia, dal feng shui al Kazakistan.
Basta. Basta, per carità.
Oggi si parla di tutto, con tutti. Ovunque. Certo le nuove tecnologie non ci aiutano, con le chat gli sms gli ogm.
Tante parole, fatte di cosa in realtà? Per conoscere bene qualcosa, qualunque cosa, ci vuole tempo. Ci vuole l’esperienza che si fa sulla pelle, la rende consapevole, insieme alla testa, di qualcosa.
Parlare può essere un’esperienza vuota come uno stomaco dopo il pasto saltato.
ma noi insistiamo. A dire, ovunque.
Ma tutto questo “sapere” fa male. Perché non è sapere. Non è conoscere. E’ intuire vagamente qualcosa, sommersi da informazioni che incrostano i nostri cervelli.
E’ così bello, a volte, non sapere. Solo tacere. E ascoltare. E, magari, sentire davvero qualcosa.
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