SE QUESTO E' UN ORSO - ECOLOGIA IN-SOSTENIBILE
Non muore soltanto un orso.
Muore un pezzo, un altro, della nostra umanità.
Amarena non è "solo" un orso, è anche un simbolo, un archetipo, un messaggio....
Questa umanità alla deriva denuncia una mutazione antropologica che ormai ci rivela allo sbando, schiacciati da una decandenza globale, come globale è il mondo che abbiamo costruito.
Peccato che non abbiamo esporttao ovunque "il bene", ma "il male". Il malde di un uomo sempre più arrogante, deciso a violare le leggi di natura, che pensa di disporre di un pianeta e si aggira sulla terra come se fosse in un supermercato in cuis sceglie, compra, butta.
E tutto il male sembra venire a galla senza più maschere, vomitando nefandezze ogni giorno. C'è come un accelerazione verso il precipizio da cui non risaliremo più.
Mai più.
Con questa orsa muore anche un altro pezzo della nostra speranza di un mondo migliore.
No, non è più possibile, un mondo migliore.
Lo dimostriamo ogni giorno.
Non abbiamo capito il senso di quel "green" con cui ci staimo riempendo la bocca e alcuni, soprattutto, le tasche.
L'ecologia non è un fatto di marketing. L'ecologia è una questione di coscienza. Prima di un'ecologia delle città, delle abitazioni, dei mezzi di trasporto, è necessaria una coscienza ecologica, il resto segue.
Ma non ci riusciamo, perchè nion riusciamo davvero a sentirci figli di questa terra, a non pensarci superiori ai nostri fratelli animali, a non ringraziare abbastanza le piante che di danno l'ossigeno per vivere.
La morte assurda, ingiusta, crudele di Amarena chiude una settimana italiana di capirette gettate di sotto e finite a calci in testa, di morti ammazzati su un binario di notte, di ragazzi uccisi a sangue freddo per uno scooter in doppia fila.
Mi fa male il mondo.
Sempre più spesso.
Impossibile non vedere nel culmine della nostra arroganza l'inizio di una fine, la nostra.
Se avessimo imparato a vedere nelle leggi di natura l'insegnamento più prezioso per capire i misteri della vita e della morte, e il senso del nostro destino individuale e comune, capiremmo dai "segni" che abbiamo superato il punto di noin ritorno.
"Imparerai più dagli alberi che dai libri di scuola", diceva Bernardo di Chiaravalle a un suo allievo.
Ma siamo analfabeti, noi. Analfabeti che non conoscono il'alfabeto del rispetto, dell'empatia, della collaborazione.
E così un uomo vede un orso e spara.
Perchè gli hanno fatto credere che può disporre della vita di ogni animale.
Che può avere quel brivido fallico di cacciatore.
Che è padrone di ogni cosa atrraversi il suo terreno.
No, non ci sarà nessuna pena sufficiente.
Ma quante Amarena vengono uccise ogni giorno?
Quanta violenza gratuita, quanta, potremo ancora sopportare?
L'umanità non riconosce ancora la profonda irrevocabilità della sua crisi.
Eppure i segni ci sono.
Non muore solo un orso, muore un altro pezzo della nostra coscienza.
Amarena è un simbolo, un totem che racchoude significati. E chi ancora sa, chi guarda i segni dietro gli eventi, capisce che si tratta di un altro, importante indizio del tunnel in cui ci siamo infilati.
Non c'è più la luce, nel tunnel. E non è detto che ci sia sempre l'alba, al termine della notte.
E mentre le ombre dell'umanità vengono fuori, senza più maschere, come mai prima d'ora, non resta che attendere che le cose facciano il loro corso.
Il fallimento dell'essere umano è un dato reale, che misuriamo ogni giorno.
E non resta che sorridere penosamente, pensando alle nostre belle macchine elettriche (fatte da altre manine innocenti, africane, sfruttate e violate) che si aggirano un un aterra sfiancata, in cui saremo soli, soli con le nosyre intelligenze artificiali.
Se questo è un orso
ucciso lucidamente
di spalle
mentre cercava cibo per i suoi cuccioli
Se questo è un orso, io non sono più un uomo.
I CONDIZIONAMENTI COLLETTIVI
LA NOTTE MI STREMA
LO SPAZIO DELLE PAROLE
L’ho capito fino in fondo proprio qui, a Tangeri, nello spazio bianco di un mattino di vento.
Funzionano, le parole, solo quando ci arrendiamo, quando smettiamo di pretenderle. Loro viaggiano sulle frequenze, sono un suono. Hanno un peso, una direzione. Ho sempre suggerito ai miei allievi dei corsi di editoria e scrittura di considerare le parole come una partitura musicale, di leggerle come si legge un brano ad alta voce, sviluppando una sorta di orecchio assoluto.
Sì, vanno ascoltate, le parole. Producono armonie e disarmonie, come la musica. La musica delle parole fa di noi i direttori di un’orchestra anarchica in cui sono loro a scegliere noi, e a guidarci. Penso agli esperimenti di Masaru Emoto, lo scienziato giapponese che scriveva le frasi sui foglietti che appiccicava a bottiglie d’acqua che venivano poi esaminate al microscopio: i cristalli che si formavano disegnavano geometrie molto diverse tra loro a seconda della “qualità vibrazionale” delle parole. Parole d’amore generavo cristalli armonici, parole di odio e disprezzo davano vita a geometrie disarmoniche, che risuonavano con il tipo di energia liberata. Sì, perché la parola è energia. Una forma di energia molto potente.
Non è solo l’”abracadabra” dei maghi o la parola segreta degli iniziati spirituali, la parola è madre di ogni generazione nella materia. In principio era il verbo.
E il verbo è suono.
Non a caso nelle Vie dei canti gli aborigeni australiani narrano la creazione del mondo attraverso il nominarlo. Il nome è padre, il nome è madre. La parola dunque è molto potente, può essere risorsa o trappola, cibo che sfama o coltello che uccide. L’uomo lo sa bene, ne ha sempre fatto uso. Ecco perché dobbiamo avvicinare le parole con rispetto e umiltà. Attendere, avere pazienza, come nella leggenda della tribù Hopi in cui un indiano in cammino si ferma e rallenta per attendere la sua anima.
Le cose belle, le cose preziose hanno bisogno della qualità del tempo. Quel tempo che oggi ci sfugge, immersi drammaticamente in una società velocissima che sceglie l’intelligenza artificiale prima ancora di aver imparato bene a usare quella “fisiologica e naturale”. Ecco, le parole ripagano chi è consapevole della preziosità del tempo, della pazienza. Se le parole sono musica, dobbiamo trovare gli accordi. E sapremo “intonarle” in sintonia con la nostra ispirazione.
Scrivere è sempre un fuoco, una febbre. Ẻ attrito che genera una scintilla. A volte sembra quasi una malattia. Una malattia di cui non voglio la cura.
IL VECCHIO E IL MARE DELLA MEMORIA
L'ho incontrato a Cuba, moltissimi anni fa. Nel 1999 io ero ancora una ragazzache viaggiava insieme al sogno della rivoluzione di Cheguevara. E Cuba era uno degli ultimi territori in cui il sogno romantico di una società più giusta, più attenta ai deboli poteva trovare spazio. Ma all'Havana il sogno si infranse sbattendo contro gli spigoli aguzzi della propaganda ferma alla rivoluzione raccontata ogni giorno in televisione, si infranse davanti agli occhioni grandi e truccati di ragazzine in marcia verso gli hotel dove le attendeva l'europeo con il portafogli pieno e il passaporto giusto, promessa e garanzia di una terra lontana dove non sarebbero state portate, si infranse nelle file di turisti che avevano la precedenza in ogni negozio, e si infranse nella consapevolezza dell'insufficienza di ospedali efficienti e di garanzie minime di un cibo per tutti. E, soprattutto, si infranse davantgi alla fuga dei balzeros con cui ogni notte qualche disperato sognatore osava prendere il largo per raggiungere il suo sogno in Florida. No, senza libertà non esiste giustizia. Senza possibilità di critica, non esiste giustizia. Senza uguaglianza per turisti e locali, non esiste giustizia.
Se il Che era un romantico, Fidel invece dei suoi studi di avvocatura aveva mantenuto la strategia e il pragmatismo, che avrebbero traformato l'isola in un regime dittatoriale non troppo migliore da quello che lo aveva preceduto. E mentre il Che scelse di andare a morire per salvare altri popoli, Castro si mise a governare il suo, di popolo, con le maniere forti. Troppo forti.
E mentre giravo per le strade dell'Havana tra meraviglia e disicanto, comunque stregata da quel luogo magico di allegria,di vita frugale capace però di illuminare i sorrisi, ho trascorso lì alcuni dei momenti più belli.
Perchè a Cuba c'è la villa di Hemingway, la Finca Vigia, con il suo studio che ancora mostra i libri e la macchina da scrivere (su cui magari ancora veglia lo spirito dei gatti tanto amati dallo scrittore), il giardino pieno di alberi e fiori e la barca con cui andava a pesca.
Ma su quella barca non era da solo. C'era, con lui, Gregorio Fuentes, un vecchio pescatore che fu così presente, così significativo nella vita di Hemingway da diventare l'eredità vivente de "Il vecchio e il mare", uno dei capolavori assoluti dello scrittore americano.
L'ho incontrato, Gregorio Fuentes.
Viveva poco lontano dall'Havana. in una casetta con la porta sempre aperta, come tutte le porte delle case cubane. Forse perchè c'è poco da rubare, o forse perchè l'ospitalità serena con cui la gente accoglie eventi e persone non può che non trovare dimora in un invito all'accesso, anche simbolico.
Quando sono arrivata era in casa, e si dondolava sulla sedia fumando la pipa. Sopra di lui, il ventilatore alleggeriva il caldo disperdendolo nel soffio del vento.
Parlava, parlava, e rideva, e poi parlava ancora. Qualche turista gli stava seduto davanti, altri ascoltavano in piedi.
A quel tempo non conoscevo ancora la lingua spagnola, ma capivo che stava parlando del suo rapporto con Hemingway, e dei loro giri in mare.
Ero lì, commossa, perchè non puoi non commuoverti davanti al testimone di un tempo prezioso. La lettura non ci porta solo in altri mondi, ma ce li fa vivere, li trasforma nei nostri paesaggi interiori. E così, diventano un po' anche nostri. La mia Cuba, il mio Hemingway, il mio Gregorio Fuentes. Ma quel "mio" non è possesso, indica piuttosto un luogo del cuore in cui si deposita, intimamente, ciò che amiamo tanto.
A quel tempo, per fortuna, non esistevano i telefonini che avrebbero saccheggiato l'esperienza, l'avrebbero subito vanificata appiattendola in un selfie, o una storia su Instagram.
Invece eravamo tutti lì, in un ascolto mai distratto, a vivere quell'esperienza con pienezza e intensità.
Non importa se conservo solo un paio di scatti e qualche minuto di girato (avevo una videocamera, a Cuba, perchè da sempre in me il viaggio e il giornalismo narrativo camminano insieme, anche senza la necessità di pubblicare, si tratat piuttosto di un modo di vivere e di sentire).
Conservo tutto nel cuore. E il ricordo ha la magia sfumata del tempo, non è incastrato nel digitale ad alta definizione che oggi sottrae tanta poesia (preferisco le macchine fotografiche analogiche, quelle che offrono immagini sfumate, in cui vibra l'eros - inteso in senso più ampio - della suggestione, non la pornografia della definizione ostentata). E dunque vive in me come un sogno. Frammenti, colori in cui dominano il bianco e l'azzurro, risate, sguardi, strade sterrate, palme, case diroccate...
Di quel momento, soprattutto, porto nella memoria lo sguardo allegro di ragazzino.
Gregorio Fuentes non c'è più. A me piace dire "è passato oltre", perchè sono convinta che, dato che l'energia non muore ma si trasforma, ogni forma umana vive poi altre dimensioni, altre galassie, altre possibilità di espressione.
Non c'è più ma quel ricordo si apre ogni volta che incrocio la mia copia de Il vecchio e il mare.
La letteratura vive nei luoghi, nelle persone, cammina nella memoria dei lettori e negli spazi delle case che gli scrittori hanno abitato.
Quell'incontro è stato, semplicemente, magia.
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