ONLINE IL NUOVO NUMERO DI SILMARILLON. SI PARLA, STAVOLTA, DI SCRITTURE CONTEMPORANEE.
Parlare di scrittura è sempre una faccenda articolata, complessa.
Scrivere lascia un segno, una traccia precisa (è per questo che da sempre l’uomo usa la scrittura per rendere eterno il suo passaggio su questa terra).
Ma il linguaggio è mobile, dinamico, condizionato dal tempo e dalla cultura.
Ogni periodo ha il suo “suono” particolare, ha parole “sue” che comportano un differente peso specifico.
Per questo folle di linguisti, filologi, letterati si sono sempre dati da fare intorno a quel sistema meraviglioso, terribilmente affascinante quanto complicato rappresentato dalla parola scritta.
Chi lavora con le parole sa quanto queste siano birichine, sfuggenti, rapide. Mercuriali.
Da quando l’uomo antico ha codificato i primi segni, a a quel tempo composti da grafìe mi animaliste che tuttavia già prevedevano un profondo sistema simbolico-filosofico, la parola – intesa in questo senso come significato condiviso di nomi riconoscibili – ha accompagnato, fin dall’aurora del tempo, lo sviluppo e l’estensione dell’uomo su questo pianeta. Dare in nome alle cose significa farle vivere, farle esistere. Ecco perché Adamo nomina, man mano, le piante e i fiori. Allo stesso modo, in Australia, i primi abitanti – nati, secondo la leggenda aborigena, dalla terra – cominciarono a camminare cantando il mondo, nominando ciò che via via incontravano. Le vie dei canti, le vie dei suoni, le vie delle parole.
E oggi?
Oggi che succede? Non è più solo il tempo del libro su carta, libro che da Gutenberg in poi ha rappresentato il mezzo sublime di conoscenza e trasmissione del sapere, quello capace di soppiantare ogni altra forma (come fa dire anche Victor Hugo a uno dei protagonisti nel suo Notre-Dame de Paris).
Oggi è il tempo della televisione, dei computer, delle chat, degli sms.
La comunicazione si fa immediata, diretta, rapida.
La scrittura squisitamente sofisticata, virtuosa di un Proust, con i suoi periodi di dieci righe densi di maestose subordinate, che senso ha, oggi?
Ha senso, ha senso. Eccome se ce l’ha.
Intanto non dimentichiamo mai che i classici vivono eternamente. “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” scriveva Calvino. E aggiungeva: “È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più fa da padrona”.
Dunque un Dante, un Checov, un Jack London e un Balzac saranno sempre attuali, sempre presenti.
Il problema, semmai, si pone per chi decide di scrivere adesso.
La nostra società ha scarnificato il linguaggio, certamente lo ha anche omologato, in qualche modo, come intuiva – e giustamente denunciava – Pierpaolo Pasolini.
Eppure, eppure la lingua è capace di saltare ogni schema, ogni struttura. La lingua è alata, come Mercurio. Si tratta di osare quel tuffo capace di produrre una scrittura personale, caratterizzata dall’impronta di un’individualità.
I nostri tempi moderni sono ancora in grado di produrre buone scritture.
Scritture diverse, versatili come versatili sono i mezzi di comunicazione.
L’appiattimento socio-culturale è un’altra faccenda di cui, ovvio, anche la scrittura – in quanto sua espressione – risente.
Ma possiamo ancora inciampare in libri bellissimi, capaci di stupirci.
O in libri meno folgoranti e tuttavia pregevoli, capaci di trasmetterci comunque qualcosa.
Alcuni studiosi del linguaggio sostengono che i media abbiano influito negativamente sulla scrittura, altri invece ne esaltano aiuti e possibilità.
All’interno del dossier troverete varie scuole di pensiero. Non a caso.
Silmarillon è un progetto trasversale, che ama il dubbio, il punto interrogativo. Che all’affermazione preferisce la domanda, all’assoluto la possibilità.
Anche in questo caso, dunque, le strade sono aperte, i pensieri si intercettano, si sovrappongono, camminano parallelamente e in alcuni punti di dividono. Va bene così.
Sicuramente la quantità di scrittura è aumentata notevolmente (basta pensare ai blog, tanto per fare un esempio, oggi setacciati dagli editori in cerca di nuovi scrittori).
Forse è la qualità ad essere piuttosto carente, a volte. Ma questo problema non appartiene solo alla scrittura. È, semmai, una minaccia diffusa in questo secolo così fragile, a volte, perché afflitto dagli eccessi della quantità. .
Gli imputati sono la superficialità, la globalizzazione in cui spesso prende forma l’ assenza di discriminazione, la bulimia crescente che tutto fagocita e nulla digerisce (pericolo presente in tutti campi), la voglia di evadere piuttosto che di scavare, sudando, sudando.
E la scrittura richiede sudore. Comunque.
Non importa se la mano che la guida impugna la penna d’oca di un romanziere ottocentesco oppure digita con agio una sfilza di parole sul pc di casa.
L’impegno che la parola ci chiede è senza tempo. Un po’ come i classici.
Che poi mezzi siano molteplici, che siano più immediati, che rendano tutto più fluido e facilmente raggiungibile è un’altra faccenda.
Senza sforzo non ci sono parole (l’ispirazione, quella sorta di felice sorella tche ti attraversa facendo balenare le giuste frasi nel giusto tempo si accompagna sempre e comunque a rallentamenti, a contrazioni del linguaggio in cui la ricerca si fa più difficile. E sempre, sempre, il lavoro di lima e cesello è necessario per raffinare quanto si è scritto).
Le scritture contemporanee, in più, hanno il dovere – a mio avviso – di raccontare il nostro tempo.
Troppo spesso chi scrive si rifugia nel passato, si rannicchia in moti intimisti, autobiografici, predilige schemi sentimentali sempre uguali a se stessi.
La nostra società ha un bisogno disperato di essere raccontata. E allora ben vengano i Saviano, i Rizzo e gli Stella.
Ma ben vengano anche le Tina Spacey, i Clifford Chase, i Veronesi, solo per fare una manciata di nomi.
Insomma, raccontare la contemporaneità si deve, si può.
Travestendola da finzione oppure così, tout court, senza troppe mediazioni al di là di una forma romanzata che la renda più godibile, suadente.
La tentazione di rimpiangere i classici a volte è forte, a volte si fa tensione estrema, radicale.
Ma cercando si trovano tante piccole perle. Che saranno, magari, i classici di domani.
L’importante è fiutare quel vento lieve che solleva le parole dalla contingenza e le trascina ai confini della materia. Ecco che lì, in quel luogo, la scrittura non ha né presente né passato. Semplicemente, è.