Alla fiera di Sant’Agostino lo zucchero filato è scomparso.
Ogni anno, nel mio borgo natio, la fiera modella gli ultimi giorni della mia estate.
Ha un sapore antico.
Sarà perché ha la forma di una incantevole bambola, bianca, con la cuffietta e gli occhi veri che si aprono e si chiudono.
Avrò avuto sette anni, la mia manina stringeva quella del mio papà mentre misuravo i contorni di quella bambola meravigliosa, troppo bella per essere mia.
La conservo ancora.
Ogni anno, alla fiera arrivava qualche regalino.
E poi c’era lo zucchero filato, con il suo bastoncino su cui galleggiavano nuvole bianche, deliziosa promessa per i sensi che si arrampicavano tutti sulla punta del naso per inseguire quell’odore inconfondibile, dolcissimo eppure mai stomachevole.
Quest’anno lo zucchero filato è scomparso.
E’ scomparso insieme a molte altre magie della fiera.
Negli anni dell’adolescenza, lo sguardo migrava dalle bambole agli hippies che tornavano dai loro viaggi portando oggetti strani che mi seducevano: incensi, tamburi, vestiti colorati, pietre e collane particolari.
All’epoca il vintage e il neohippy non erano di moda, per fortuna.
L’odore dell’incenso, danza inebriante di ambra e patchouli, accompagnava le mie perlustrazioni.
Quei ragazzi avevano addosso il mistero di lunghi viaggi sui quali appoggiavo i miei sogni.
Oggi, purtroppo, anche loro sono scomparsi. Al loro posto, una muta di ragazzi e ragazze che comprano oggetti dagli importatori e poi li rivendono a tutte le fiere, da nord a sud.
La fiera ha perso il suo fascino, la ricchezza dei suoi dettagli particolari. Non a caso scompaiono le bancarelle più bizzarre, come quelle che radunano pezzi vecchi e curiosità, per far posto ai vestiti.
Vestiti, vestiti, vestiti. Tutti uguali.
Del resto, questo è il frutto dell’omologazione.
La Coca Cola e l’hamburger di Mac Donald sono sempre gli stessi, da Città del Messico a Hong Kong.
E così sono scomparsi anche gli oli essenziali (ne cercavo, invano, uno d’ambra) sostituiti da boccette prefabbricate che hanno tutte lo stesso odore di fondo, quello delle schifezze con cui “tagliano” le essenze. Fino a qualche anno fa si trovavano oli diversi, era ancora possibile intercettare il profumo perfetto.
Oggi, invece, la massificazione ha fatto scomparire dalla fiera anche questi venditori di oli particolari (c’èra un tizio indiano, qualche anno fa, con un baracchino nel quale mi persi, mi persi sul serio, ubriaca di profumi incredibili che investivano i sensi).
Insomma, la fiera è diventata un mercato qualunque. E ha perso la sua magìa.
Ieri pomeriggio, dalla finestra della casa di mia sorella che si affaccia sul corso, la strada principale della città, ho spiato un pagliaccetto che gonfiava palloncini di plastica combinandoli in varie forme e colori. Una rosa, un cane, una spada. Sorrideva, si inchinava, faceva le faccine buffe. Aveva un cappello coloratissimo e degli scarponi rotondi. In quel piccolo angolo che sembrava fuori dallo spazio e dal tempo, fatto di gesti antichi su cui soffiava lo spirito delle cose che non sono più, ho ritrovato parte dello smarrito stupore.
La gente continuava a correre infilata l’una sull’altra, piena di buste piene di vestiti, ma il pagliaccetto stava lì, imperterrito. Ogni tanto qualche bambino si fermava e anche l’adulto, allora, riscopriva un arcaico incanto.
Più tardi, quando la notte dava il cambio alla sera, prima di andare a dormire ho guardato di nuovo.
Lui si stava cambiando, aveva tolto gli abiti colorati e si era infilato un paio di pantaloni larghi, gli infradito e un gilet. Il cappello aveva liberato la massa di capelli rasta che venivano custoditi in uno chignon (conosco quel tizio, è un ragazzo che sta insieme ad altri artisti di strada, seduto su un gradino poco più avanti nella stessa via). Ha messo via le sue cose insieme alla manciata di spiccioli.
A un certo punto si è girato verso una bellissima bicicletta elettrica color rosso fuoco, ha tolto il lucchetto, ci è salito sopra e si è allontanato.
Ho sorriso.
In fondo, è questo il nostro tempo.