A volte l’aspettativa tira brutti scherzi.
A volte le lodi eccessive tessono una rete ingannevole.
Certamente Ermanno Olmi è un grande, lirico, intenso regista. E Centochiodi è un bel film.
Forse, però, non è il capolavoro annunciato dal tam tam mediatico, quello che ha visto tutti, ma proprio tutti, inchinarsi davanti al maestro, incensando la sua opera con toni che rasentano la devozione.
O forse, più semplicemente, la sottoscritta è un’imbecille perché non l’ha apprezzato così, questo film.
Fatto sta che Centochiodi ruota intorno a un’idea a dire il vero non originalissima, quella dei libri che allontanano dalla conoscenza del mondo, dall’esperienza che solo l’attrito con la realtà può far scaturire.
Lo racconta Elias Canetti nel suo magnifico Autodafè, tanto per fare un esempio.
Il rapporto fra cultura e realtà ha sempre destato sommosse, scuole, schieramenti.
Olmi, nel suo commiato dal cinema, lo riprende in chiave cristologica ponendo l’accento sulla differenza tra la sapienza delle religioni "lette" e la verità delle religioni "vissute".
Il Cristo moderno (che veste i panni di un improbabile Raz Degan) chiamato da tutti "il Professorino", lascia il mondo dell’istruzione, delle scuole, dei libri di teologia dopo aver "crocifisso" un’intera biblioteca.
Finisce per vivere sulle rive del Po, a contatto con un mondo in declino, quello struggente e verace delle microcomunità in cui ancora il danno delle metropoli non ha potuto corrompere l’anima, un mondo estraneo ai consumi mordi e fuggi, agli isterismi e agli individualismi. Un sentire ancora pulito, fresco come il bucato steso al sole.
Sì, certo, le atmosfere sono rarefatte, olistiche, ma troppo di maniera. Lo sguardo sicuramente esperto di Olmi insiste sui dettagli, scava nei sorrisi, nei dialetti, nelle occasioni sociali della piccola folla che abita le rive del Po.
Sembra quasi di sentire, bisbigliate negli spazi e nei gesti, le parole di Pasolini quando, negli Scritti Corsari, ammoniva sull’omologazione che di lì a poco avrebbe trasformato l’Italia in un paese soggetto alla deriva di una cultura moderna allo sbando, infettata dalla televisione, erosa dalle città che allungavano la loro ombra sulle campagne, trasformando l’innocente contadino in un proletario triste, posticcio, prigioniero nella gabbia della civiltà.
Sì, le inquadrature di Olmi che esitano sui volti dei vecchi, sull’affresco di una chiacchierata costruita intorno a un bicchiere di vino, sulle mani che preparano il cibo, ci ricordano tanto il Pasolini che cercava "la verità" negli attori, nelle storie, nelle vite che raccontava.
I dodici signori, incarnazione contemporanea degli apostoli di questo Cristo moderno (non manca neanche la Maddalena, che qui diventa la bella panettiera che si concerebbe a tutti ma che non riesce ad essere amata), sono la parte migliore del film.
Un film che tuttavia rischia paradossalmente di sembrare artificioso proprio per l’insistenza nel voler raccontare la genuinità di quella vita remota, dal sapore antico, in cui si specchiano, ormai, solo i nostri vecchi, quelli delle campagne e dei mari.
A tratti questo attardarsi esasperato sui dettagli di questo mondo "altro" assume quasi una valenza artificiosa.
Insomma, si ha quasi la sensazione di qualcosa di "finto" malgrado la ricerca esasperata della semplicità. Il voler essere genuini a tutti i costi rischia di assomigliare a una versione sofisticata, intellettuale, del Mulino Bianco.
Si rischia l’impopolarità, a criticare l’acclamato Centochiodi di Olmi. Ma va bene lo stesso. Perchè, seppur soggettiva, seppur singolare, seppur eccentrica in un coro entusiasta, questa sensazione rimane lo stesso.
la sensazione che nel film si sfiori qualcosa ma non si scavi davvero.
La frase che le recensioni hanno lodato di più è quella in cui Cristo-Degan dice che non c’è libro che possa sostituirsi a una tazza di caffé con un amico. Sì, benissimo, bellissima.
Anche Martin Buber, una volta, scrisse qualcosa di simile. Scrisse che avrebbe cambiato tutta la sua biblioteca in cambio di una carezza.
E poi?
Al di là di alcune belle frasi, e di inquadrature certamente magnifiche, di atmosfere rurali, schiette, il film non si fregia del capolavoro. Almeno per la sottoscritta.
Che rimane con alcune domande.
Una su tutte: perché quando Cristo-Degan si spoglia della sua vecchia vita, getta gli abiti in acqua e molla l’auto sotto l’ombra di un ponte, si tiene la sua carta di credito e il suo portatile?
Molto radical chic, questo Cristo moderno.