Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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IL NOSTRO ATTIMO FUGGENTE

 

 

 

Grazie a un >>post  pubblicato nel bel blog di Marea di Luce, ho avuto modo di ripensare a un mio vecchio professore di liceo.

Su ognuno di noi, se è fortunato, vigila nel cuore la memoria dell’ attimo fuggente, vissuto con un insegnante prezioso, una piccola perla bianca nell’oceano di banalità su cui nuotano professori scemi o insegnanti svagate, amanti dei presidi e annoiati signori costretti a seguire sbadigliando una classe, infarcendola di nozionismi e regolette.

Proprio come nel film di Peter Weir, L’attimo fuggente, esistono insegnanti che si staccano dal carro trionfante e balordo su cui avanza l’orda barbarica degli insegnanti, e preferiscono correre da soli.

Ma corrono. Corrono mentre gli altri si trascinano fiaccamente vivacchiando su paginette stampate e soporifere lezioni imparate a memoria.

Corrono da soli, corrono incontro agli allievi, cercano di fare formazione e non

in-formazione.

Ti si annidano nelle viscere quando parlano entusiasmandosi, ti commuovono nei loro slanci sinceri, ti stupiscono con le loro digressioni inattese.

Sono sempre un po’ speciali. Eccentrici, folli, meravigliosamente anarchici.

Il mio professore insegnava francese al liceo linguistico. Unica testa pensante in un corteo di lobotomizzati.

Ricordo ancora il suo profumo penetrante che invadeva l’aula, l’azzurro dei suoi occhi schietti che inseguiva l’arco improvviso di un sopracciglio, i suoi modi passionali e duri allo stesso tempo.

Lui evitava come la peste la muta di professori che circolava nella scuola, Adorava prendere la bicicletta e andare in campagna, raccogliere fiori, camminare da solo per ore.

Ora che ci penso, somigliava un po’ a Chatwin.

Di ogni albero e pianta conosceva nome e provenienza. Si commuoveva parlando di Proust e dei giardini inglesi.

Ma, soprattutto, cercava di allenarci a diventare adulti capaci di discriminare.

Quando ci interrogava, non voleva ascoltare la sciatta elencazione di due paginette di antologia, vita-morte-opere di qualche autore francese.  Ti sgranava gli occhi addosso e domandava: Sì, ma tu, tu che ne pensi?

Cercava con pazienza e coraggio di tirarci fuori pensieri nostri, stimolava la libera circolazione di idee, il frutto prezioso dell’associazione.

L’ho amato tantissimo, e continuo ad amarlo. Ne ho sempre conservato l’insegnamento. Che riguarda qualcosa di molto più ampio della lingua e della letteratura francesi, per quanto affascinanti possano essere.

Riguarda l’educazione all’intelligenza, a quella cultura rara che cerca di sposare la testa con l’emozione.

Più tardi, quando mi sono ritrovata, per uno dei casi della vita, dietro una cattedra a insegnare tecniche di giornalismo e redazione a giovani teste pensanti, mi sono sempre ricordata di lui.

Questi insegnanti sono rari. Attraversano la notte della scuola con un bagliore rapido, come una stella cadente. Sono occasioni che vanno colte e custodite.

E rimangono nella memoria, leggeri come rugiada ma solidi come una roccia. Te ne accorgi all’improvviso, un giorno.

E senti il cuore che soffia sulla brezza della gratitudine.