Non so, ma come sempre, a Natale, mi assale il dubbio.
Vetrine festose, gente in crisi epilettica da regalo che si aggira impazzita per le strade. Un cuculo senza nido, penso. E nessuno che ci vola sopra.
Si plana invece sugli isterismi delle commesse intente a imballare pacchetti e pacchettini.
Immagino invece la serenità di una mia amica carissima, una donna coriacea sul lavoro e ispirata da un gran cuore sulle umane faccende. Lei e la sua famiglia hanno abolito ogni regalo (ad eccezione dei bambini giustamente preservati, ancora, dal leopardiano "crollo delle illusioni"). Preferiscono, loro, donare soldi a chi ne ha bisogno.
Così lontani dall’opulenza che si respira, malgardo la crisi dell’euro e dei salari, in queste trafficate giornate.
Penso a lei con affetto e stima. Penso che forse, l’anno prossimo, farò così anche io.
Adesso, in questa vigilia, mi trovo nella mia città marchigiana a girovagare fra torroni e pandori, fra scatole infiocchettate e nastri dorati.
"Spaghetti trafilati al bronzo", diceva a pranzo (fuori) la cameriera. Già. E perché non placcati in oro?
Insomma, lo so, così sono più naturali (e costosi) ma allo stesso in questi giorni ogni spreco, ogni abbondanza, mi fanno pensare a quanto siamo lontani dal concetto di carità.
E perdio, lo so che sarà retorica, ma non riesco a non pensare che con una pantafolina dorata del papa (quelle speciali, quelle fatte a mano da un antico artigiano di Roma) si sfamano almeno sette famiglie. E’ anche per questo che mi sento lontana da quella Chiesa che questi giorni raduna i credenti.
Lontana dalla Chiesa, non da quel Cristo che ammiro come fiamma vivente.
Mantenere un decoro va bene, vivere nell’eccesso barocco è altra faccenda.
E il pensiero va invece a quegli uomini di fede sparpagliati per il mondo, quegli uomini che vivono di fatica e sudore, che rischiano la pelle ogni giorno per aiutare – con carità cristiana – quelli che ne hanno bisogno.
Sarà colpa della mia anima randagia, fisiologicamente avversa alle istituzioni, sempre tesa a misurare l’abisso che separa l’Idea dalla Realtà (ahimé).
Ma alla Chiesa degli uomini preferisco cercare la Chiesa del cuore. Anzi, chiesa. Non Chiesa. Perché la maiuscola rimanda a un’enfasi assai lontana dall’umiltà di chi è povero perché ha fatto il vuoto dentro di sè.
Stasera, la cena. Ravioli, lenticchie e un oceano di dolci. Ma dopo, dopo me andrò da sola, in terrazzo, a riposare la mente sulla nebbiolina notturna che copre, come un plaid tessuto di sogni, le colline che finiscono in mare.
Respira, respira. Ascolta.
E cerca, ancora, la sorpresa.
A tal proposito, sul Corriere di oggi quel genio del pensiero che è Francesco Alberoni dedica un articolo alla fuga dalla banalità (proprio lui, che con la banalità ha creato il suo impero).
E scrive:
"Si vive in superficie e nulla ci emoziona. Al più ci sorprende".
Non sono d’accordo. Direi il contrario. Direi che nulla ci sorprende. Al più ci emoziona.
Perché l’emozione è solo la superficie dell’anima. E’ solo porta, non sentiero.
Il sentiero richiede invece sorpresa. Richiede la capacità di sgranare gli occhi su un istante che si dilata all’infinito, abbandonando la convenzione di ciò che crediamo di vedere o sapere.
Le cose che ci emozionano sono tante, tantissime. Attraversano le nostre vite come nuvole sull’oceano.
L’emozione è brivido intenso, scossa e piacere. Ma al di là vibra il mondo silente della sorpresa.
E’ lì che la superficie viene abbandonata davvero. Me lo insegnò la persona che cambiò la mia traiettoria e che ogni giorno, dentro di me, fiorisce con rinnovato amore.
Ecco perché penso sia importante stupirsi. Emozionarsi è fantastico, speciale, meraviglioso. Ma lo stupore è l’attimo fuggente che cinge e allo stesso tempo elude.
Guardo fuori. La luce fatua del pomeriggio si attarda nella mia stanza. E’ ancora presto.
Presto. Già, presto.
Presto per deporre, come fiori sul marmo, la speranza in un mondo migliore.
Buon Natale? Forse sì. Forse.