Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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UNA FOTO CHE CAMBIA UNA VITA

 

bambino finito su una mina antiuomo, Pakistan

 

Non è questa, la foto di cui voglio parlare. Ma va bene lo stesso. In fondo, ci sono migliaia di foto diverse che raccontano tutte la stessa storia, quella dell’infanzia interrotta dalla guerra.

E c’è una foto simile a questa. Una foto in bianco e nero, ospitata in una rivista francese insieme alle signorine belle della pubblicità di scarpe e profumi. E c’è una lettrice che resta con la pagina sospesa a mezz’aria.

Una donna come tante, una mamma sulla cinquantina, con un marito, dei figli, un lavoro.

Lei non riesce a tornare all’inchiostro rassicurante, alle patinature che lucidano la greve opacità del mondo.

Continua a fissare quel bambino senza un braccio che, disperato, gira la testa verso il padre come in cerca di quell’arto che lui non potrà restituigli. Gli occhietti strizzano lacrime che invadono il petto nudo, la bocca è aperta in un grido in cui si annida tutta la sofferenza del mondo. Il padre lo abbraccia e volge lo sguardo in alto, con quegli occhi che galleggiano come zattere alla deriva nel volto liquido, in cui la bocca sembra uno squarcio sul nulla. Forse si chiede dove sia finito il suo Dio. Forse non riesce a reggere la trafittura di quelle pupille nere, ancora fresche di fanciullezza, che sono diventate due ombre.

E piange, la signora. Piange.

Non riesce a scordare la foto, e neppure il bambino.

Così decide di partire per il luogo in cui è stata scattata: il Pakistan.

Se ne va lì così, come un refolo di vento salito all’improvviso nel cielo.

Ha solo quella foto con lei. Ne fa più di trecento copie. Cerca, gira, chiede. E, finalmente, qualcuno le dice si sapere dove si trova l’uomo con la faccia disperata.

Una donna, una fotografia, un destino.

Trova il bambino, ed è come incontrare sé stessa.

Lo porta, insieme al padre, in Francia, dove il braccino assente sarà sostituito da una protesi che permette alle dita metalliche di muoversi.

La famiglia francese accoglie, per il periodo che staranno lì, quel bimbo e quell’uomo. Quel bimbo che non parla la stessa lingua del figlio di lei. Ma l’empatia non ha bisogno di lingue. Non c’è Babele che la possa fermare.

Ho ascoltato questo racconto oggi, in un programma televisivo.

E ho pensato al richiamo del cuore, a quella spinta misteriosa che ci fa attraversare terre e persone. Che ci fa cercare per donare, a chi ha poco, quel poco sottratto al nostro "tanto".

Ma i gesti come questo superano ogni preziosa beneficenza.

Invitano a riflettere su quanto, in realtà, si poss fare in prima persona. Senza delegare, senza poi chiudere gli occhi dopo il gesto di buona condotta che magari abbiamo – come sempre – dispensato. Gesto lodevole, per carità.

Ma questi episodi vanno oltre. Raccontano le avventure dell’anima. Raccontano di chi si mette in gioco sfidando la sorte, come fosse un gioco di scacchi.

E in questo mondo martoriato a volte l’amore vince. Scacco matto.