Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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NELL’ORA DELLA NOSTRA MORTE

 

 

Tengo la tua mano fra le mie. Sento le ali della morte soffiare un vento fresco nella penombra della stanzetta. Ma se tu non molli, lei non può portarti via.

E tu non molli. Non molli.

A novantanove anni, hai lo stesso attaccamento alla vita di un bambino che mette la testolina per la prima volta fuori dall’utero.

Siamo soli, sia quando "usciamo" che quando "entriamo". Usciamo, entriamo. Entriamo, usciamo.

Sei solo anche tu, come tutti noi in questi momenti. Mani gentili si affaccendano intorno al tuo corpo. Mani premurose, affettuose, che stringi nel tentativo disperato di farti strappare via da quel buco nero che ti sta chiamando. 

Hai stretto anche le mie, poco fa. Ho sentito che cercavi, nel mio calore, il conforto della vita, cercavi la forza del sangue che pulsa nelle vene tornando e tornando sempre negli stessi luoghi, come certi uccelli migratori.

All’improvviso ho sentito, con un brivido, che io e tuo figlio e gli altri che ti stanno vicino, tutti noi siamo "l’aldiqua", siamo l’ancora per la vita, il porto da cui non vuoi salpare. E tu, tirato per i capelli nell’"aldilà" ti rifiuti di lasciare la presa, sostando dolente, rabbioso, in quel crinale fra i due mondi, fra il giorno e la notte. Appeso a una speranza fatua e allo stesso tempo quasi violenta, rifiuti la morte. Ma rifiuti anche la vita. Incapace di scegliere, drammaticamente spaccato fra la stanchezza della tua anima e la gioventù ribelle della tua volontà, mi fissavi, poco fa, con quei tuoi occhietti fatti di cielo e di lago.

Ancora adesso, ora che sono tornata a casa, ti immagino nella sua stanzetta, a scacciare la morte, via via, via di qua, pussa via, chiedendo indietro una vita che nessuno potrà mai più ridarti.

Vuoi alzarti, forse stai tentando anche in questo momento preciso. Tiri fuori la tua zampetta da uccellino, la lasci scivolare via dalle lenzuola e poi ci fissi, ci fissi con quegli occhi da animale ferito e provi ad alzarti.

Non ci sono più le nostre mani ad alzarti. Non possono. Ma ci sono tante braccia invisibili pronte a sollevarti verso mondi sconosciuti e pieni d’amore. Lo so, lo sento.

Eppure il richiamo delle ossa e della carne è troppo forte, trattenuto da quella volontà sorda al fisico che sta scricchiolando, impassibile davanti al lamento di membra stanche percorse dal tempo.  

Ma il tempo non è una linea retta. Il tempo è circolare, ricordi? Ne abbiamo parlato tante volte, insieme, in quei pomeriggi in cui ti venivo a trovare e tu cominciavi a raccontare dell’uomo e dell’universo, della religione e della scienza. Accidenti, non riuscivo a tenere testa alla furia dei tuoi guizzi mentali, frutto di un’intelligenza mercuriale che la vecchiaia non è mai riuscita a corrompere.

E ci sono infinite partenze, e infiniti ritorni.

Dicevi di credere in Dio, anche se questo Dio era un po’ bizzarro, e forse talvolta anche antipatico. Ma, perbacco, che genio di un Dio, questa Intelligenza capace di creare cose così belle e immense e misteriose. Lo dicevi sempre.

Eppure adesso non riesci a fare la Sua volontà. Non riesci a mettere da parte la tua. E non sei solo, sai? Non ci riesce nessuno. Ma non ho mai visto uomo, sulla terra, dotato di una forza vitale come la tua.

Vedi, anche adesso, anche nel traguardo della tua esistenza (traguardo che procrastini senza spezzarti, ma come fai? come fai?), quel "quid", non saprei come chiamarlo, che sta lì dentro, da qualche parte, rannicchiato fra il corpo e la mente, continua ad animarti impedendoti l’abbandono.

L’uomo è creatura arcana, lo hai detto spesso anche tu.

E io non posso che constatare come l’istinto alla vita in te sia più forte di qualunque morte. Non c’è dolore fisico, nè certezza spirituale, che possa distrarti dall’unica tua vera tensione: la vita. Vivere, vivere a ogni costo.  Contro ogni ictus, contro ogni osso che si sbriciola come un biscotto caldo al mattino, contro la bocca che non riesce più a parlare ma che continua a smozzicare suoni sul mondo.

E guardo tuo figlio, e lo sento mormorarti parole d’amore.

E vedo le sue carezze su di te, povero passerotto arrabbiato, disperato, con le tue ali spezzate, arruffate, inutili ormai perché non sono quelle, le ali che devi usare adesso. Adesso devi imparare a sguainare le ali vele, quelle delle aquile che guardano il sole.

Devi fendere la vita, trapassarla balzando oltre. Non è facile, lo so. Per te poi è impossibile, caro, vecchio Highlander, reduce da mille battaglie eppure mai stanco di vivere.

Mi fa male la pancia. Mi fa male perché sento la morte accanto a te (ma perfino lei si inchina davanti a tanta tenacia, e aspetta, paziente. Tanto non ha fretta, a differenza nostra, piccole formichine affaccendate sul mondo).

Ti vedo così piccolo. Forse è per questo che i vecchi e i bambini si somigliano tutti. E che entrambi, alla fine, nel loro momento cruciale sono soli.

Ma quanto importano le carezze di tuo figlio. Come le sue parole, che ti accompagnano cercando l’appoggio per un dolce distacco.

Morire non è mai dolce. Ecco, ecco la grande prova, quella a cui dovremmo pensare ogni giorno. Il passaggio.

Non sei pronto, tu. Fa male vederti così. Ma io spero che la tua volontà si faccia piccina piccina. Spero che la tua mano si apra lasciando andare la materia di questo mondo, che stringi così forte in quel pugno tutt’ossa, incapace di distendere le dita.

Lascia andare. Ti prego.

Permetti alla morte di dare compimento alla vita.

Quel bardo è lo "spavento supremo", per tutti noi. Ma la tua anima non avrà paura, se la personalità cederà le armi dell’Io.

E sarai Noi, non più Io.

Sarà un nuovo, segreto vagabondaggio.