Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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GLI OCCHI DELLA MORTE

 

 

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Cosí li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.

(Cesare Pavese)

 

Oggi la morte  ha per me degli occhi precisi. Sono azzurri, accesi dal guizzo scintillante dell’intelligenza che sempre si affaccia dietro uno sguardo sottile.

E ha pure occhi marroni, gli occhi marroni di un domani prossimo, troppo prossimo, che ansima su una vita definita dalla malattia che ne stacca a morsi i secondi.

Ma, in fondo, la morte ha anche i miei occhi. E quelli di ognuno di noi.

In questo pomeriggio piovoso, sospeso fra lutti appena passati e lutti annunciati, tutto sembra ridimensionare ogni pretesa, ogni miseria, ogni traguardo.

Perché la morte ti sbatte in faccia la tua finitezza, e tu stai lì, piccolino, ridicolo, aggrappato alle tue certezze che hanno la stessa consistenza di un soffio.

Del resto, lei è l’unica, incorruttibile sicurezza.

Tutti siamo destinati a morire. Delle altre cose, dei sogni, delle glorie, delle varianti applicate alla nostra sorte nulla, in effetti, sappiamo. Possiamo congetturare, sperare, inseguire…Ma ogni cosa, ogni attimo, vive sul filo dei mutamenti e noi, noi come acrobati  attraversiamo in punta di piedi- un passo dopo l’altro – la linea sottile dell’esistenza. Avanziamo a volte tremanti, altre volte spavaldi.

Ma solo una cosa rende uguali le nostre storie, solo una cosa assottiglia le varianti dei nostri destini fino a renderci tutti simili, tutti uguali. Solo la morte – vera, irrevocabile democrazia- rappresenta l’unica sicurezza, l’unica condivisione di una meta comune, irreversibile.

E dobbiamo imparare a guardarla in faccia, questa morte.

E quanto è difficile, in questo circo pieno di forme e colori, denso di promesse di gloria e di giovinezza, di scommesse sul trionfo dell’uomo che ritarda la morte – ritarda, ma non annulla – di morti mediati dalle televisioni oppure rintanati negli ospizi e negli ospedali, quanto è difficile, sì, ricordarsi ogni giorno che dobbiamo morire.

Già, perché la morte rende ogni cosa transitoria, fragile, traballante. Ma senza di lei non ci sarebbe la vita, quella stessa vita che diciamo di amare tanto. E tuttavia, come sempre, amiamo solo ciò che non ci spaventa, incapaci di accettare l’orrore dell’interezza.

Siamo piccini. E impauriti.

Davanti alla morte ogni soluzione di continuità si infrange come l’onda su uno scoglio.

Ma, dentro, in mezzo al dolore e alla disperazione la coscienza continua a pulsare.

Non a caso quando perdiamo qualcuno detestiamo i luoghi chiassosi e le ciance inutili.

La morte chiede silenzio, e verità.

Così, all’improvviso, accanto a noi vogliamo solo chi è davvero importante. Ci nutriamo di affetti veri mentre gli altri, quelli di circostanza, diventano incommestibili, come cibo scaduto. Li scansiamo come fanno i cavalli con le zanzare.

 

Perché il dolore fa chiarezza, purtroppo. Rende ancora più importanti le cose importanti, e inutili quelle che invece trasciniamo per convenienza, o bisogno. Mette a nudo le zavorre, scarnifica l’anima.

La morte muta equilibri, sposta scenari e confini.

E il mondo finisce sullo sfondo, e se ne sta lì, con i suoi rumori, le sue luci, le sue corse e i suoi progetti.

Guardo fuori dalla finestra, e ancora e ancora.

La malinconia si fa uggiosa, come questa giornata. Ma allo stesso tempo insegna. Insegna come insegna la morte stessa. E noi continuiamo a scansarla, a esorcizzarla finché un giorno, all’improvviso, lei ti ricorda che c’è.

E lo fa modo suo. Senza tanti preamboli o tanti preavvisi.

Non si schiera, non discrimina, non ha preferenze o avversioni.

La grande signora della democrazia non fa sconti né accetta la vendita delle indulgenze.

Ma allora perché facciamo finta che non ci sia? I popoli antichi la trattavano con più rispetto.

Memento mori.

Quanta saggezza.

Ricorda che ogni successo è destinato a terminare, ricorda sempre che esiste un passaggio e che è meglio che tu ti prepari.

Gli estremi della vita, la nascita e la morte, sono segnati dal trauma della solitudine in un passaggio difficile, estremo, che cambia sostanza e forma al nucleo di cui siamo fatti.

Celebriamo la vita ma ignoriamo la morte.

E invece penso che dovremmo avere il coraggio di guardare i suoi occhi. Sapere che dovremo affrontarla, che ci toglierà affetti e amori ma che, nello stesso tempo, ci regalerà i suoi amari frutti.

 Non si impara solo assaggiando il nettare dolce. Si impara soprattutto dal dolore. Si impara dall’amputazione di quella falce che sottraendo allo stesso tempo consegna. Che cosa, è faccenda privata per ognuno di noi.

Ma tutti scenderemo nel gorgo muti.

E lì, in quel momento, al di là del respiro e delle parole, al di là della mente e di ogni teoria, misureremo esattamente ciò che siamo stati capaci di essere.