Io non guido spesso la macchina. Anzi, non lo faccio mai. Preferisco, a Roma, il motorino. Certo, un po’ adolescenziale, un po’ centauro urbano, ma tanto, tanto comodo.
Quando d’estate vivo nelle Marche, invece, uso la bicicletta, cioè il motorino al quale è stato sottratto il soffio “vitale” del carburante a favore delll’energia muscolare. E tuttavia a volte mi capita di usare l’auto di mia madre, deliziosa e soprattutto facile da guidare: una Citroen automatica, con tanto di tettuccio decappottabile (non ricordo il nome del modello, per me le auto possiedono una cifra segreta, sono sconosciute quanto il più remoto dei sogni).
Bene, con questa Citroen decido di andare sulla riviera del Conero. Chi conosce le Marche sa che si tratta di un posto speciale, con la montagna che cola a picco su un mare terso, trasparente, pieno di scogliere magnifiche e spiagge popolate da sassi bianchi. Ricorda la Sardegna, anche se è meno aspra, selvaggia. Qui la terra incontra il mare disegnando un’architettura perfetta di boschi, vallate, baie e promontori. Non ci andavo da moltissimi anni, dunque mi decido per l’avventura.
E mi trovo a fare i conti con stradine piene di tornanti, di salite immediate e altrettante immediate, impreviste discese. Ogni volta che arrivo a una rotatoria il tempo di scelta della direzione diventa interdentale, un pugno di secondi per giocare una destinazione altrimenti, dietro, le auto degli altri turisti ti strillano nei timpani facendone poltiglia.
E comincio a scocciarmi. Non sono pratica dell’auto, non la guido ogni giorno. E qui nessuno è calmo, nessuno è disposto al tempo marginale di una breve attesa, rapida come un respiro.
In più è difficile guidare con quest’andatura da serpente ubriaco che si sposta continuamente a destra e sinistra rasentando alcuni strapiombi che, sebbene protetti, sono sempre abissi sul vuoto. E io soffro di vertigini, perdio. Così, tra il caldo, le curve, le salite e le discese comincio a inquietarmi. Anche perché nei pressi di Portonovo parcheggiare la macchina diventa cimento da Olimpiadi. Tra pendenze e piccoli piazzali sul fianco del monte, le macchine si infilano una dietro l’altra a mo’ di sardina mentre i placidi parcheggiatori ti chiedono “solo” 5 euro per giocare al massacro sul bilico delle rocce che portano giù, verso il mare.
A un certo punto, in salita, circondata da una schiera di auto che mi fissano accaldate mentre cerco di infilare la mia in uno spazio lillipuziano ai margini di un piccolo strapiombo boscoso, mi viene una crisi di nervi. Mi sento in trappola, in trappola ai piedi di una montagna che sputa turisti come noccioline. Ma ci riesco, alla fine, a conquistarmi un bagnetto in una baia. E certo che l’acqua è meravigliosa, con i fondali che mostrano la sabbia modellata dall’acqua. Poi riparto, cercando di arrivare nel paesino di Sirolo. Ma di nuovo curve, dossi, tornanti, salite, discese…
Non so mai cosa mi trovo davanti, mi agito, mi innervosisco. E penso, in quel momento, a quanto la paura dell’ignoto sia una cosa concreta, vicina.
Percorrere strade diverse da quelle che solitamente battiamo significa aprirci alle possibilità di incontri sconosciuti, profumati di inedito. Ma possiamo incontrare mostri o madonne, in quei tragitti. E ne abbiamo paura. Quando la nostra guida è consolidata, quando sappiamo esattamente fra quanto semafori dovremo infilare la destra per arrivare alla meta, ecco che allora siamo tranquilli, coraggiosi, tesi a invocare lo sconosciuto. Ma quando arriva sul serio, lo sconosciuto, ci viene il panico. Insomma, questa metafora stradale mi ha aiutato a capire come, di fatto, siamo legati alle nostre abitudini, a ciò che ci aspettiamo di trovare, a ciò di cui conosciamo confini, odori e sapori. In certi momenti mi sentivo davvero a disagio seguendo quella rotta nuova, difficoltosa, a bordo di un mezzo diverso da quello che uso solitamente.
Molto più facile fare le vecchie vie. Per questo la mente, quando sbagliamo un tragitto la prima volta, solitamente lo sbaglia per sempre: non è mica scema, lei. Ama le cose comode, prevedibili, per questo indossa le sue belle pantofole collaudate. Cambiare quell’”errore” è difficilissimo, lei tende comunque a girare, mettiamo, a sinistra anche se ormai sappiamo che è necessario proseguire invece dritti. La prima volta è quella che determina ogni percorso futuro, per lei, su quel tracciato che ormai “legge” in un certo modo.
Spesso annunciamo di voler cambiare, di voler sfidare l’ignoto (sentimentale, professionale, geografico, spirituale…). In realtà pochi di noi ci riescono. Abbiamo paura. I sentieri diversi dai nostri ci incutono timore, sono un po’ come i viaggi nelle grotte dell’inconscio, dove si muove, nell’ombra, tutto ciò che non conosciamo. Vorremmo essere capitani coraggiosi, come Ulisse, e ci troviamo a battere i denti per la paura, come un coniglietto braccato dai cani.
Ma non importa. Ciò che conta è prenderne atto. Conoscere l’estensione e la profondità di quel mare che separa il “dire” dal “fare”.
L’ignoto ci trasforma in cacasotto. Bene, si parte da qua. Poi, piano piano, possiamo iniziare timide avventure, mescolando stupore e spavento.
La mia piccola gita impervia mi è stata utilissima per toccare i miei limiti, per provare il tremore dell’agnello che batte sotto il petto di leonessa che avanza spigliata nei traguardi consolidati.
Cambiando la guida, la prospettiva e il percorso, ci si misura – anche filosoficamente – con parti profonde, poco frequentate.
Avventurarsi con mezzi sconosciuti (l’auto lo è, per me) in terre difficili è un’avventura. Una piccola sfida che prelude però a conquiste diverse, tutte misurate dall’ansia di “non sapere”.
E la mente, lenta-mente, si adegua. Si fa più audace, anche se controvoglia. Perché poi, durante il percorso, può capitarle di mettersi in un cantuccio e ascoltare lo stupore di un “Oooooh!” nell’attimo in cui l’ignoto smette di farci paura e si fa accoglienza, carezza, calore.
Ogni cosa remota, allora, si fa più confidente.
Ci racconta di piccoli salti nel vuoto, spazi aperti fra le chiusure delle nostre abitudini.