Quest’estate ho finalmente messo la distanza necessaria tra me e il bellissimo Jules e Jim di Truffaut per permettermi di leggere il libro di Roché, da cui il film è tratto.
Quindici anni. Ci sono voluti quindici anni per smorzare la memoria di quelle scene meravigliose, con una Jeanne Moreau che domina tutto il film, e potermi dunque dedicare al libro senza subire l’influenza dell’opera cinematografica.
Purtroppo libri e film non vanno sempre d’accordo: se si vede un film, la lettura del libro ne risulterà condizionata, compromessa dalle definizione delle scene, dal volto dei personaggi che si impone su quello che avrebbe scelto la nostra immaginazione. Il ritmo di un film non corrisponde al tempo letterario del libro: si genera solitamente una delusione. Se si è letto il libro, vedere il film solitamente comporta insoddisfazione perché “inscatola” una visione: un libro ha spazi aperti, orizzonti meno segnati dalla linea di confine che separa la finzione dall’immaginazione; se invece prima abbiamo visto il film, la nostra lettura sarà comunque obbligata a un confronto in cui domina la pellicola che pretende di orientare e governare il nostro percorso immaginativo-mentale davanti a trama e parole.
Potendo scegliere, sempre meglio leggere prima un libro e solo in seconda battuta avvicinarsi alla trasposizione cinematografica. Saremo meno delusi. Un film ha sempre un potenziale più limitato, è forzato dal perimetro di scene già predisposte, con contorni e ritmi precisi che nulla lasciano alla magia dell’immaginazione: i volti dei protagonisti sono quelli scelti dal regista, non sono i volti della nostra visione, non sono i personaggi così come li immaginiamo, come li percepiamo noi. Quindi traslochiamo a casa del regista, ci mettiamo nelle sue mani, anzi nei suoi occhi.
Spesso questo trasloco ci costa caro. Ci costa l’insoddisfazione.
Pochi registi hanno saputo infondere nella loro opera filmica l’anima dell’opera letteraria. Un libro è faccenda strana, oggetto magico che vive in un tempo senza tempo. Ci è riuscito Luchino Visconti nel suo Gattopardo, che ha sposato le atmosfere della penna di Tommasi di Lampedusa senza usare violenza ai personaggi, senza piegarli al proprio Ego. Loro sono così, così come li percepivamo durante la nostra lettura, così come li aveva sentiti e vissuti il loro autore. Sono stati vestiti, hanno ricevuto -. come tramite l’insufflazione di un dio – occhi, pelle e capelli, hanno respirato e parlato, il loro cuore ha cominciato a battere per raccontare di nuovo la storia di una Sicilia che cambia per non cambiare.
In un film i protagonisti non vivono più in una dimensione a-spaziale e a-temporale nascosta nel bianco e nero bidimensionale di un libro, da cui si staccano man mano che il lettore poggia gli occhi su quelle parole che li fanno danzare in alto, precipitandoli in vortici sopra le pagine, sopra le nostre teste, nei territori sconfinati e impalpabili dell’immaginazione che li rende viventi, autentici, irripetibili per ogni lettore; in un film i protagonisti si muovono come noi nel mondo delle tre dimensioni, malgrado la bidimensionalità dello schermo ne livelli apparentemente le prospettive: di fatto li vediamo come noi, sono uomini e donne che si muovono in un mondo già prefigurato, esistente, reale. Discorsi diretti e descrizioni letterarie si trasformano in scene di vita, scelgono il ritmo del tempo orizzontale mentre il libro conserva alcuni arcani momenti di quel tempo circolare riservato agli dèi, a un altrove non terreno.
Quindi sono sottoposti a una trasformazione che a volte li infeltrisce, come accade a un maglione lavato in acqua troppo bollente.
Non è successo al film di Visconti come non è accaduto ad altre opere. Penso a Romeo e Giulietta di Zeffirelli, Excalibur (qui potete vedere un trailer>>) di Boorman o al recente Il signore degli anelli.
Le storie, gli ambienti, i personaggi e il loro respiro sono in questi casi molto fedeli al loro doppio letterario, vibrano della stessa sostanza.
Ma si tratta di un’alchimia difficilissima.
E non è detto che il semplice rispetto di un libro finisca per determinare la sua felice trasposizione nel film. Accade ad esempio che in Sostiene Pereira il regista, Roberto Faenza, sceglie una traccia pedissequa senza tener presente la distanza enorme tra il ritmo letterario dell’opera di Pessoa che avanza lentamente, per sensazioni interiori più che per accadimenti, e il ritmo di un film che comunque chiede la presenza di eventi ( a meno che non si possegga il genio di un Bergman, fatto rarissimo). Ne risulta un insieme pedante, noioso, soggiogato al peso di un libro al quale, per troppa fedeltà, non riesce a rendere omaggio pur volendo, nelle intenzioni, non tradirne neppure un capello. E ci troviamo davanti a un passaggio cruciale: essere fedeli o infedeli? E’ un po’ come accade per la traduzione di un libro, sempre divisa da due scuole di pensiero: quelle che difendono la traduzione capillare, sempre rispettosa delle frasi originali, e quelle che privilegiano invece una rielaborazione in grado di traslocare le suggestioni e le intenzioni in una lingua che comunque, per sua matura, richiede a volte scelte lessicali, scelte di ritmi e di pause diverse.
La grammatica di un libro è la sua anima. Va trattata con attenzione e rispetto. Personalmente, faccio parte di coloro che pensano che qualche rielaborazione possa essere fatta, anzi sia necessaria, in modo da restituire nella nostra lingua la sensazione e l’intenzione (più che l’esatta sequenza di parole) dell’altra lingua, che conosce cifre diverse. Un esempio su tutti è il famosissimo incipit della Ricerca di Proust.
“Per molto tempo mi son coricato presto la sera”, recita la traduzione – bellissima – di Natalia Ginzburg, non a caso scrittrice.
Esiste anche un’altra traduzione: “Per molto tempo la sera sono andato a dormire presto”. Ora, quale suona migliore? Più convincente?
Quando sono gli scrittori a tradurre gli scrittori accade un fatto meraviglioso: entrano nel linguaggio, ne leggono l’anima e la traghettano in un’altra terra profumandola con gli stessi colori che però hanno le sfumature locali. Bisogna anche ragionare, poi, sul fatto etimologico che la traduzione, come la tradizione, rappresenta un tradimento (tradere, tradire). Ma un tradimento necessario a riconsegnare e far sopravvivere.
Ora, tornando al rapporto tra libri e film, già la scelta di una faccia per un personaggio, o l’accelerazione di un episodio del libro è già un “tradimento”, come un tradimento è di per sé stesso il passaggio da libro a film, vera trasmutazione, autentico passaggio in cui una natura cambia radicalmente.
Ma il regista in gamba conosce, come il buon traduttore, l’anima di ciò che sta trasformando, e quest’anima, nella sua essenza, non cambia né può cambiare.
Paradossalmente, il “tradimento” di un rispetto pedissequo come quello di Faenza, che ignora gli universi differenti di un libro e di un film con la pretesa di mantenere tutto uguale, senza intervento né rielaborazione filmica, è maggiore di quanto fa un regista come Truffaut che “sente” l’opera e la racconta – personalizzandola ma non violentandola – consapevole del tempo e del ritmo di una storia che procede per immagini viste e non lette.
Il modo migliore per rispettare un’opera nella sua trasposizione cinematografica è avere con lei confidenza, carpirne l’anima, penetrare la mente dell’autore e quella dei suoi personaggi. E anche così, comunque, sarà sempre stagliata, all’orizzonte, la possibilità della delusione per il lettore che si trova a dover vivere i “suoi” personaggi, le “sue” storie attraverso gli occhi di un altro. Ma se questo altro è stato vicino allo scrittore, ne è diventato amico intimo, quasi un confessore, allora ecco che la delusione sarà mitigata, favorita dall’apertura verso un’altra rappresentazione del libro, quella voluta non da noi ma da un altro lettore particolare, il regista, che come un demiurgo ha la capacità di muovere la ruota rendendo viventi le immagini proiettate nello spazio e nel tempo del film.
Sicuramente chi vede un film senza o prima di aver letto un libro lo apprezzerà maggiormente. Sarà più libero di muoversi, di esplorare, di godere di quella visione. Ma chi dopo aver letto un libro sancisce il successo del film, apprezzandolo, rende omaggio al regista che ha saputo entrare in comunione con lo scrittore, ne incorona il talento che ha saputo navigare tra rispetto e tradimento, traducendo la scrittura in un film che ne incarna l’essenza. E tuttavia, tuttavia come lettori siamo e saremo sempre condizionati dal libro che abbiamo letto e che abbiamo fatto vivere nelle stanze della nostra mente, una volta e per sempre.
Allo stesso modo, un film si imprime nella memoria impedendoci la libertà di inabissarci nel libro seguendo le inclinazioni della nostra immaginazione con il suo taglio personale, unico, irripetibile. Ecco perché ho dovuto mettere tanto tempo tra il Jules e Jim. Truffaut era troppo forte, troppo ingombrante dentro di me.
Ora, dopo tanti anni, le sue scene si sono attenuate, confuse, accavallate. E così ho potuto apprezzare la penna di Roché, quella stessa penna che anni fa incantò il regista francese ispirando uno dei film più belli della storia del cinema.
Non facile, per noi, dividerci fra libri e film. Due mondi incantevoli, magici, dotati di arcane corrispondenze ma anche di differenze radicali.
I matrimoni riescono, in questo caso, solo a patto di conoscere bene entrambi i territori.
Truffaut ce l’ha fatta. Ma era Truffaut.