Qualche tempo fa, una sera, guardavo una mia amica mentre mi raccontava le sue faccende seduta sul divano del mio salotto, sorseggiando una birra.
All’improvviso mi sono trovata a fissare la sua ombra, proiettata dalla luce artificiale sul muro.
Lei, la mia amica, parlava, parlava e io invece guardavo la sua ombra. Parlava anche lei, l’ombra. Stava lì, il suo doppio, a disegnare il profilo della mia amica nella sera, accompagnandola nei gesti, nella sigaretta sulle labbra, nelle risate.
Non riuscivo a schivarla con lo sguardo. La fissavo, affascinata.
Eccola lì, l’ombra di cui parliamo sempre. Vivente. Me la trovavo davanti e mi sembrava, a tratti, che si facesse beffe della mia amica. Ironica, pungente, sapeva di essere viva, anche a insaputa della sua “proprietaria”. Del resto, ombra è tutto ciò che non vogliamo vedere, che prolifica nel buio della nostra coscienza. E se nel mondo tutto è segno e simbolo di qualcosa di più ampio, ecco che mi trovavo a fare l’esperienza visiva di questo doppio di cui percepivo la potenza. Era reale, concreta, palpitava. Aveva un cuore nero che batteva – bum bum – come quello di cui era l’emanazione. E un profilo identico. Stessi gesti, stesse sembianze. Si muoveva in modo sincrono e tuttavia allo stesso tempo sembrava autonoma, come un Golem sconcertante, improvviso e imprevisto.
Mi pareva addirittura che si fosse accorta del fatto che mi ero accorta di lei. Io, non la sua proprietaria. Lei non la guardava neanche, continuava a parlare con quella confidenza tutta femminile, fatta di riti intimi, di pelle, di sintonie lontane dal cameratismo maschile.
Sono rimasta impressionata, quella sera. Più tardi, da sola, mi sono resa conto della concretezza dell’ombra. Ci segue sempre, come una vecchia abitudine. Ostacola la nostra luce ma allo stesso tempo la definisce, ne diventa il controcanto necessario e pregnante. Non c’è luce senza ombra, qui sulla terra. Maggiore è la luce, maggiore è l’ombra. Forse è per questo che – si racconta – i maestri spirituali e i santi sono circondati da schiere di demoni. Certo è che ombra diventa, in termini psichici, tutto ciò che non vogliamo vedere. Ed è tanto, di solito.
Finisce nei sotterranei della nostra psiche, alimenta i nostri fantasmi, incenerisce le nostre speranze, proietta cadaveri viventi sul nostro cammino.
Ma è anche carburante, fuoco, motore. “Se i miei demoni se ne andranno, temo che anche i miei angeli mi lasceranno”, scriveva Rainer Maria Rilke.
Va usata, non subìta. Dobbiamo sapere che c’è, e discendere “negli inferi” per fare la sua conoscenza. Esattamente come fa Persefone quando viene rapita da Ade. I miti da sempre ci raccontano la storia dell’ombra e della sua funzione. Utile per la nostra conoscenza, diventa un inciampo solo quando non la guardiamo.
L’esperienza di quella sera è stata molto particolare. Quell’ombra cucita addosso ma autonoma (l’ombra di Peter Pan fugge addirittura da lui) mi parlava un linguaggio privo di parole.
Senza colori né sonorità, era viva, vivissima. Pareva quasi staccarsi dal muro. Sapeva di esistere a prescindere dalle nostre intenzioni, dagli sguardi che le avremmo elargito, dall’attenzione consentita. Era lì, semplicemente. E stava raccontando qualcosa.