Molto tempo dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa di sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.
(Garcia Màrquez, Cent’anni di solitudine)
L’incipit di Cent’anni di solitudine è forse uno dei più belli di tutta la storia della letteratura.
Un attacco fortissimo, che pone il lettore – immediatamente – davanti al dramma di un uomo che sta per morire. E cosa fa quest’uomo? Si ricorda di un espisodio lontano nel tempo. Si ricorda dello stupore provocato dall’incontro con il ghiaccio.
C’è una bellissima poesia di un altro gigante della letteratura, Borges, che si apre sui pensieri di un uomo nell’ultimo istante di vita.
Se l’incipit è così forte, per tutto il resto di un testo (poesia o prosa che sia) bisogna poi riuscire a non deludere il lettore. A mantenere lo stesso tipo di pathos, la stessa forza della prima riga. Non si può scendere dalla vertigine di un livello così altro, dirompente. E per far questo occorre uno straordinario talento. Come quello che animava la loro penna.
E se torniamo per un attimo a quegli ultimi pensieri sulla soglia della morte, con la porta aperta sul vuoto, sul buio che inghiottirà ogni memoria, ci rendiamo conto che forse, per alcuni di noi, potrebbe fiorire – come il loto in uno stagno notturno – una memoria antica, mai sopita, trattenuta in qualche anfratto dove i ricordi giocano a rimpiattino.
Ognuno di noi possiede il ricordo del momento in cui scoprì il suo ghiaccio.