Francesca Pacini
Leggere e scrivere fanno bene alla salute. E non hanno effetti collaterali.

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FIGLI DEL SESSANTOTTO

 

 

Li guardavo, i miei. Ex sessantottini infilati nella pantofole di una ritrovata borghesia dopo la mai salpeggiata chiatta che doveva arrivare fino in India. Fino a Goa, a Katmandu, fino ai confini dell’occidente.

Dai volantini all’università mia madre era passata alla carta igienica con cui puliva il culetto di noi bambine. A mia sorella doveva pulire anche la bocca, perché si mangiava la cacca che Plosch, il nostro cane, disseminava per tutto il giardino.

Lo seguiva traballando sulle sue gambette, raccoglieva quelle briciole di Pollicino che segnavano il passaggio di Plosch infilandosele dritte in bocca.

I sogni di ribellione di mamma si schiantarono sul muro di quel giardino. O forse mia sorella si ingoiò anche quelli. E me ne fece assaggiare un pezzettino.

La  vita di mamma assunse il perimetro stretto della casa in fondo al vialetto, quella in cui trascorse per anni le sere davanti alla televisione dopo averci concesso il Carosello, mentre papà al bar stanava gli avversari del poker. "Un poker di buono, tuo marito", le disse una volta una cugina.

Papà non era mai stato realmente un ribelle. Soltanto un dandy  che bighellonava trasognato per la città, in attesa di evadere la minaccia di avvocatura prospettata dai suoi, pronto a tutto pur di non mettere la camicia di forza di un lavoro "borghese" malgrado la sua rivoluzione fu solo e sempre domestica, scandita dalle mutande buttate nella cesta dei panni sporchi dalla cameriera, raccolte da terra mentre gli portava il caffé.   

Era lui, a sognare la chiatta in India. Invece di una chiatta in India, alla fine costruì un’azienda in Italia. Diventò il self made man di cui parlano sempre tutti i giornali. Dopo un periodo molle di sbando e di povertà, decise di voler dimostrare al mondo che poteva emergere, poteva diventare qualcuno.

Mamma a casa, lui al lavoro. Lei immacolata come una Madonna, tutta presa dalla sbronza dei figli per dimenticare un marito dongiovanni che passava dall’ufficio al letto. Un altro letto, non il loro, non quello matrimoniale dove avrebbero dovuto consumare carne e sudore.

Noi crescevamo al riparo dell’ombra dei soldi che papà andava facendo, mattone dopo mattone, milione dopo milione. Le fratture della nostra famiglia nevrotica venivano ingessate con le banconote.

Ci toccò la sorte di tanti figli dei figli del Sessantotto: la libertà venne barattata con la comodità. Il nucleo della famiglia fu scambiato con un’esplosione nucleare che ci divise per sempre dall’unità, scavando grotte e cunicoli nella nostra dimensione affettiva, quella che io e mia sorella avremmo trascinato disperatamente da adulte. Laggiù si aggirava "la strega", la donna ctonia dai capelli scarmigliati e il ventre gonfio, sporco di fango. Quella che nuda inseguiva le mie fughe notturne in cui i sogni aprivano le frontiere all’incubo.

Più tardi, guardando indietro, mi resi conto che nei  desideri sfumati dei miei genitori si andava cancellando la promessa di felicità per il nostro futuro.

Il Sessantotto fu furore esitinto nell’attimo della revisione, fu gioventù incapace di portare avanti la radicalità di una posizione estrema, priva di compromessi, che bandiva la mediazione.

 

(Aurora Semente, Dove tace il tempo)

 

Certamente molti dei figli di coloro che fecero il Sessantotto si sono scontrati con una virata d’assetto che ha messo da parte i jeans sdruciti in cambio del pantalone di lino. Oggi molto di loro sono impiegati, la domenica portano la famiglia a pranzo fuori, vanno dal manicure.

L’età dei moti ribelli si scioglie come burro sul fuoco quando il tempo avanza portando con sé i detriti dei sogni ai quali si sovrappone la necessità di quiete, denaro, comodità.

Sono pochi quelli che sono stati capaci di mantenere viva la fiaccola di una rivoluzione distante da quella borghesia che poi è stata assunta come vestito (ritrovato o conquistato). Eppure il Sessantotto ha lasciato un segno nelle famiglie composte da questi ragazze e ragazze. Ha segnato l’incapacità di dare coerenza e struttura a una famiglia prima combattuta nella sua tradizione, poi incarnata senza trovare una forma migliore, una valida sostituzione.

Tutto a tutti è spesso diventata la ricetta da applicare coi figli. Purtroppo.