Case eco(s)logiche
Ma perché continuiamo a chiamare ecologiche le case fatte di legno?? Certo, il cemento non è bello, ma sicuramente è più eco-logico. Che poi sia un cazzotto negli occhi ogni giorno, d’accordo. E surriscalda anche la temperatura, va bene. Non vogliamo certo fare una crociata anti-cemento. Però piantiamola, per favore, di dire che la casa di legno è ecologica, tessendone le magnifiche lodi sulle riviste dedicate alle case e all’arredo. Non è vero, è una boiata. Quegli salottini deliziosi tutti in tek, libreria e parquet compresi, o l’amabile baita di montagna (che ora arriva anche nelle nostre campagne nella versione prefabbricato) NON sono inni all’ecologia. Perché, guarda caso, anche quelle sono fatte con gli alberi. Alberi decapitati che finiscono come materiale da costruzione per le nostre abitazioni che strizzano l’occhio alla natura. Natura morta, appunto. Sì, sono tante nature morte, sia che si tratti di interni o di esterni. Quindi di ecologico c’è poco o nulla. Forse c’è solo l’eco…della foresta che una volta era piena di alberi e adesso sembra una pecora appena tosata. Non si tratta, qui, né di condannare né di assolvere intenti ambientalisti o disboscatori folli. Si tratta di piantarla di dare alle cose un falso nome, atteggiamento oggi molto di moda.
Spocchie
"Come saremmo colti se conoscessimo bene almeno cinque libri", scriveva Flaubert. Conoscere bene vuol dire "conoscere", entrare dentro, far proprio. Invece la cultura spesso diventa cul-tura. Oppure Kultura. La seconda categoria, più infima perfino della prima, raduna spocchiosi del libro che, tra una nevrosi ossessiva e un brivido di onnipotenza, continuano a vivere in un mondo autoreferente in cui lui, il Libro, oggetto sacro, intoccabile, diventa lo scudo per un ego ipertrofico (o ipotrofico, la sostanza non cambia, cambia solo l’approccio) che teme di confrontarsi con il mondo reale. E poi non si diventa mica più intelligenti se si legge molto. Si diventa solo più eruditi. Il libro non è il passaporto per il funzionamento dei nostri neuroni, né tantomeno della nostra coscienza. Purtroppo molti, invece, vantano cervelli ineccepibili, menti sopraffine, e con la puzzetta sotto il naso si aggirano nei mondi culturali sentendo quel piccolo piacere persistente, annidato nell’Io, che li fa sentire grandi grandi. Diciamolo subito: solo alcuni nel mondo, e sono pochissimi, ieri come oggi, possono vantare una certa "spocchia". Nabokov, ad esempio. Le sue "Intransigenze" (leggetelo, è un libro bellissimo) sono note a tutti. Ma era un genio. Ora, di geni ne nascono pochi, pochissimi. E a un genio alcune intolleranze e vanità sono anche permesse. Ma gli altri, quegli eserciti di para e pseudointellettuali che circolano a piede libero con la loro spocchietta perché "hanno letto", o si occupano di libri, non pensano minimanente a prendersi un po’ in giro. Purtroppo. Perché solo la leggerezza dell’essere, solo l’arte del "cazzeggio" unito alla conoscenza ci dona davvero le ali. Altrimenti la cultura diventa una tomba. Del resto, i veri intellettuali sono già morti da un pezzo.
CURRICULUM
Scrivere il curriculum
Cos’è necessario?
É necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto,
il curriculum dovrebbe essere breve.
É d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onoreficenze senza motivazione.
Scrivi cone se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvol su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
É la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
(Szymborska, Gente sul ponte)
Come sempre, la poesia della Szymborska è lapidaria, ironica, graffiante.
Anzi, non dovremmo neanche chiamarla "poesia" dato che nel nostro immaginario a questo genere solitamente associamo intimismi, echi romantici, atmosfere impalpabili.
Più vicina alla prosa, l’opera della poetessa polacca si distingue per le sue incursioni nel mondo moderno, perlustrato in modo sagace e restituito, attraverso la sua penna che detesta convenienze e inchini al sistema, di qualunque natura sia, in una produzione artistica che non trattiene mai una vis polemica nei confronti di un mondo viziato dalla forma che corrompe – spesso e volentieri – i contenuti.
Ha ragione, la Szymborska, nel mettere a fuoco la burocratizzazione di un mondo che all’essere umano preferisce i distintivi, le "specializzazioni".
C’è una sola, importante specializzazione verso la quale dovremmo aspirare. Ed è quella di diventare "esseri umani di valore".
Con più cuore. E meno carta.
SCRIVERE IL CURRICULUM
Cos’è necessario?
É necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
É d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta solo quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce
di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onoreficenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per il quale ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
É la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
(Szymborska, Gente sul ponte)
Come sempre, la Szymborska nelle sue poesie moderne, lucide, graffianti, ironiche quanto spietate, ci offre spunti di riflessione sulla decandenza dell’era moderna, sul vuoto coperto solo da "macchine che tritano carta" al posto di valori saldi e soprattutto umani.
In effetti il mondo è oggi un tiro incrociato di curricula pieni di titoli, lauree, esperienze e collaborazioni. Ma la persona? Ma le persone?
Davvero i pezzi di carta segnalano un uomo? Ci raccontano chi è?
"Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare", diceva il replicante morente in Blade Runner, sotto una pioggia maliconica che scandiva il suo addio.
E noi umani, rispondiamo, abbiamo visto cose che voi replicanti, o alieni, non potete neanche immaginare.
Abbiamo visto aerei da guerra in fiamme verso l’Afghanistan,
e torri crollare in Occidente,
abbiamo visto persone scavalcare i cadaveri dei loro fratelli
navi affondare sulle soglie del porto di Lampedusa
e foreste abbattute sotto il peso dell’economia.
Abbiamo visto tutto questo,
e abbiamo visto anche curricula che sostituivano le persone
recandosi al lavoro al posto loro.
STRAFALCIONI COMUNI
Avete mai fatto caso a come il pò imperversi…un po’ ovunque?
Il bello è che quando lo leggi sui libri, o sui giornali,. o sui titoli di testa delle redazioni dei vari tg, ti viene da pensare: refuso o ignoranza?
L’altro strafalcione che tartassa la lingua italiana è il qual’è. Lo troviamo ovunque. Sempre scritto con la sua inseparabile (e sbagliata) apostrofina.
Riflettiamo poi su due espressioni comuni: "le prime luci dell’alba" e "l’occhio del ciclone".
Ora, quanto alla prima, forse le prime luci dell’alba sono…l’alba stessa.
La seconda frase, invece, è bizzarra, perché diciamo di essere nell’occhio del ciclone quando stiamo inguaiati, alle prese con un tornado psico-emotivo, o professionale (o quel che volete). Solo che in realtà, se ci trovassimo realmente nell’occhio del ciclone, saremmo nell’unico punto…immobile e calmo.
A volte usiamo la lingua senza riflettere.
Invece, senza per questo fare i Torquemada o agitare la bacchetta della signorina Rotthenmeier (ve la ricordate, la gioviale educatrice di Heidi?) interrogarsi sul senso delle parole e delle frasi che usiamo è utilissimo.
Amare la lingua italiana vuol dire usarla senza farsi travolgere dalle sue gabbie, adattarla per cercare le nostre parole in mezzo a mari di possibilità.
Ma vuol dire anche cercare di verificare l’attendibilità di ciò che altri hanno scelto di dire anche per noi.
Buona caccia.
p.s. Per Petula, Zoe e gli altri: sto ancora combattendo coraggiosamente contro Telecom e Infostrada, ma per ora nulla. Si mette male. Grazie per la solidarietà…! Il Mulino resiste ma deve fare guerra ai colossi. Semmai il prossimo post arriva a casa vostra con un piccione, va bene?
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